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Zamora, Neri Marcoré e il calcio per parlare d’altro

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Il calcio all’interno del mondo del cinema: un riassunto del contesto pallone unito al grande schermo più famoso al mondo

Il calcio come mezzo per parlare di altro non è di certo una novità nel mondo del cinema. Dai film più belli a quelli meno riusciti il rettangolo di gioco fa da cassa di risonanza a quello che è la vita: gioie, dolori e tutto quello che c’è in mezzo. Zamora non fa eccezione: l’opera prima di Neri Marcoré – appassionato tifoso rigorosamente in bianconero, Ascoli e Juve che siano – usa il calcio per raccontare qualcosa di intimo. Il giovane Walter, nell’Italia del boom degli anni 60 che lascia la provincia per la grande città è un eco del suo lasciare Porto Sant’Elpidio per Bologna.

Il calcio diventa quello che per lui è stata la recitazione e per se il regista si ritaglia i ruolo di Giorgio Cavazzoni, un po’ mentore, un po’ allievo, un po’ genio maledetto. Ex portiere fenomenale e poi distrutto dalla vita che aiuterà il protagonista a “buttarsi”, in campo come nella vita.

Il ruolo del portiere ha sempre avuto un certo fascino per il mondo intellettuale. Da Camus a Salvador Dalì, passando alla poesia di Saba, c’è qualcosa che attira: l’eccezionalità del ruolo – l’unico autorizzato a usare le mani – la solitudine del ruolo, il coraggio fisico e mentale e il fatalismo dietro ad ogni pallone respinto o lasciato entrare lo rende un ottimo mezzo per, per l’appunto, raccontare altro. E così dietro allo spaventato ragazzo di provincia, tanto esperto del mondo teorico (contabile e grande giocatore casalingo del Rischiatutto), il portiere lo aiuta a capire la sua eccezionalità e accettare il rischio.

Un film da vedere per gli appassionati di calcio (in cui il calcio non è invasivo per i non appassionati… che però mi chiedo perchè lo stiano leggendo qui!) e per chi vuole vedere con nostalgia al passato, recitando con Giovanni Storti l’undici della Grande Inter. Forse troppo intimo e a tratti troppo scolastico per pareggiare il successo di botteghino di un’altra opera prima come «C’è ancora domani» della Cortellesi, ma nel dubbio buttatevi: ne varrà la pena

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