2015
Vinicio Verza, magical mystery goal
«Una volta, prima di un derby con l’Inter, posizionai una monetina magica tra il piede ed il calzettone. Ed ovviamente segnai…»
«Lo sai cosa mi fa riflettere?». Siamo praticamente alla fine dell’intervista e Vinicio Verza, o brasileiro di Boara Pisani, colui che illuminò di giocate squisite quell’indimenticabile calcio esoterico a cavallo tra gli anni ’70 ed ’80, si ricorda all’improvviso di una cosa importante. «Che quando si parla di gol pazzeschi gli archivisti televisivi diventano tutti così pigri… Voglio dire: fanno sempre vedere la rete di Maradona con l’Inghilterra (e ok, quella ci sta), poi qualcosa di Messi, Baggio, il coast to coast di Weah contro il Verona e poco altro. Ma perché? Secondo te io gol del genere non li sapevo fare?». Per me sì, ma per rispondere compiutamente basta andare sull’utilissimo YouTube e digitare poche parole-chiave: Verza, Verona, Como, Coppa Italia. E, come per magia, apparirà il capolavoro dei capolavori. Uno slalom ipercinetico, una corsa senza confini, un assolo fluido alla David Gilmour dei tempi migliori che il buon Vinicio (in maglia gialloblu, anzi gialla e basta) compì contro il malcapitato Como durante un’uggiosa sera primaverile di tanti anni fa. Bang!
Guardatelo e riguardatelo, per cortesia: saranno almeno ottanta metri in cui Verza se li beve tutti e il calcio torna ad essere una condizione dell’essere, una malattia dell’anima, una vertigine pura. E fosse stata solo quella volta: «Di gol come quello di Como ne avrò segnati almeno altri 4 o 5 in carriera. Tutti con la maglia a strisce del mio Milan. Se ti capita, vatti a cercare Milan-Reggiana 3-0, Cavese-Milan 2-2 e Milan-Varese 3-0, tutte dell’anno in cui riconquistammo la serie A. Sai, segnare in quel modo mi piaceva da morire: era il mio modo di intendere il football». Poi, ad un certo punto, qualcosa s’interrompe, l’orchestra stecca, il ballo sfrenato si ferma. Nessuno dice più a Vinicio ‘Prego, quella è la prateria da conquistare, si accomodi’ e cominciano i maledetti “tempi supplementari”. O brasileiro si mette a fare (bene) l’agente immobilare nella sua Vicenza e al pallone apparentemente non pensa più. Troppe amarezze, un trasferimento sbagliato, un finale che non rende onore alla genuinità del genio. Finché un giorno interveniamo noi…
Le tue ultime apparizioni in serie A risalgono al 1989. Con la maglia del Como…
«Già, e dopo tante belle promesse estive, il Como si limitò a regalarmi dei soldi per farmi sedere puntualmente in panchina… (sospira) E dire che ero nel pieno della mia maturità calcistica: avevo 32 anni e neanche l’ombra di un infortunio, ma niente da fare: quella stagione collezionai pochissime presenze. Ad un certo punto andai ad allenarmi con la squadra delle riserve nauseandomi definitivamente dell’ambiente del calcio.»
Cosa non funzionò?
«Mah, la dirigenza lariana mi disse che volevano puntare sui giovani ed io pensai: ‘Ma allora perché mi hanno fatto trasferire qui con tutta la famiglia? Perché hanno fatto cambiare scuola a mio figlio? Non la conoscevano la mia carta d’identità allo scorso calciomercato?’. Poi me ne sono fatto una ragione dicendomi che il mondo del calcio è fatto così e gli interessi economici non sanno che farsene dell’integrità di un atleta. Quell’anno era toccato a me finire in soffitta, ma guarda anche come si è comportata la Juventus con Zoff. Intendo il Dino allenatore, ovviamente… (Zoff fu congedato da Torino dopo aver vinto Coppa Italia e Coppa Uefa nella primavera del 1990, Ndr)»
L’apice amaro di quell’esperienza comasca?
«Io che mi becco quattro giornate di squalifica a Firenze. Con l’arbitro che ci rideva in faccia dopo averci fischiato un rigore contro. Un rigore completamente inesistente, tra l’altro. No, quella non era più una squadra: era puro caos.»
Cambiare aria, no?
«Mi voleva la stessa Fiorentina, avrei giocato con Baggio, ma purtroppo a quel punto ero già andato oltre con la testa: la serie A mi aveva completamente saturato. Qualche anno dopo, quando ero sceso tra i dilettanti (Verza giocò ancora sia per l’Arzignano che per il Treviso, quest’ultimo in Interregionale. Ndr), mi arriva improvvisa una telefonata da Roberto Bettega che mi propone i Toronto Blizzard, in Canada. Quella era una chance che non mi sarei lasciato sfuggire, l’esperienza estera mi attirava non poco, solo che la domenica successiva mi sfasciai il ginocchio in seguito ad un fallo volontario. E fine della storia.»
Fu il Canada (mancato di un soffio) il tuo rimpianto maggiore?
«Forse sì. E pure non aver mai potuto indossare la maglia della Nazionale maggiore anche se, dopo il Mundial in Spagna, Bearzot a Coverciano invitava un po’ tutti… tranne me! Ah, e poi mi è spiaciuto non aver assaporato un po’ della rivoluzione berlusconiana che avrebbe condotto il Milan a Sacchi e al ciclo degli Immortali. Solo che Giussy Farina – che aveva un disperato bisogno di soldi – mi vendette astutamente al Verona appena prima che il Cavaliere s’impadronisse di via Turati… Per il resto, invece, bilancio assolutamente in attivo.»
Senti, secondo te è più difficile vendere case o calciatori?
«Al momento direi entrambi. Nel senso che stiamo vivendo un periodo economico semplicemente disastroso e, a livello di mercato, si vende solo alla clientela di fascia più alta. Quindi se hai la procura su di un Messi o su di una villa palladiana nessun problema, ma per il resto…»
Come mai hai scelto di diventare agente immobiliare?
«Perché nella mia vita da calciatore ho fatto qualcosa come 12 traslochi, quindi di case penso di intendermene abbastanza! (ridacchia) E poi ho sempre avuto un oculato senso degli affari, economicamente mi sono gestito bene non sperperando in giro. E questo, nel mio attuale mestiere, è una sorta di garanzia.»Credo che, tra i tuoi tanti successi sportivi (i due scudetti con la Juventus, la Coppa Italia sempre coi bianconeri, la storica promozione del Lanerossi Vicenza del ’77, ecc.) il più bello è che tu sia tuttora considerato una vera “anima casciavit” da parte del popolo rossonero…
«Io sarò milanista a vita, punto. E la vuoi sapere la verità? Dal 1989 ho scelto volontariamente di non vedere mai più una partita di serie A allo stadio e quindi per me San Siro è rimasto confinato ai suoi due anelli originali: il terzo? Mai pervenuto al mio sguardo. (sorride)»
Proseguiamo col “casciavitismo”…
«Beh, per me il Milan è quella faccenda lì: aver indossato per due anni di fila la maglia di Gianni Rivera, la cavalcata in B nel ’82/’83, il ritorno in UEFA nell’ultimo anno che vi ho giocato, i tanti gol incredibili segnati per quei colori, il tifo della Sud. Una pura questione d’orgoglio, la mia. E poi c’era il mago…»
Il mago?
«Sì, nell’estate del 1984 ritorna Nils Liedholm e, come prima cosa, mi leva la casacca numero 10. Ed io: ‘Ma come, Mister? Con questa maglia ho fatto numeri pazzeschi, è la mia seconda pelle…’. E lo svedese, serafico come al solito: ‘No, Verza: vede la numerologia, l’incastro degli astri, no buono’. Ed io, che all’epoca ero molto amico di Diego Abantantuono e stavo sempre assieme a lui, mi sentivo come se fossi finito dentro ad un film. Ad una commedia dell’assurdo.»
Quindi è vera la leggenda che il Barone si facesse fare la squadra dai chiromanti…
«Da un chiromante in particolare: Mario Maggi, il cosiddetto ‘mago di Busto Arsizio’ (o Bienate, come riporta qualche cronaca. Ndr). Non ti svelando segreti da KGB: parlane con Baresi, discutine con Tassotti e vedrai quante te ne racconteranno… Il mago era il padrone assoluto dello spogliatoio! Io all’inizio ero molto scettico, poi ad un certo punto del campionato – in un periodo dove non stavo giocando bene causa problemi fisici – Maggi mi si avvicina e mi fa: ‘Vinicio, oggi prima di scendere in campo, mettiti questa monetina tra il piede e il calzettone’. Io eseguo perché quel giorno c’era in programma il derby e, tempo novanta minuti, la partita finisce 2-2 ed io segno pure un gran gol contro l’Inter. Torno negli spogliatoi, mi levo la scarpa per conservare quel prezioso talismano e… non c’era più! La monetina era completamente volatilizzata. Sparita.»
E poi uno dice: la magia del calcio…
«Ne vuoi sentire un’altra? Guarda che questa è davvero inquietante… Ai tempi di Milanello, un altro esperto di occulto – non Maggi, stavolta – mi fece un braccialetto di rame e mi disse di portarlo sempre con me. ‘Ti proteggerà dai guai e da chi ti vuole male’, aggiunse sibillino. Solo che, giocando, col sudore, mi dava non poco fastidio e così lo feci riconvertire in un anellino. Passa del tempo, Farina mi cede al Verona campione d’Italia e Maggi, indispettito, mi lancia la sua profezia: ‘Tu, Verza, contro una squadra chiamata Milan non giocherai mai più!’. ‘Sì, vabbè…’, penso io. Solo che poi è andata esattamente così: nei tre anni in gialloblu ero sempre infortunato o squalificato quando si trattava di affrontare il Diavolo! E parliamo di tre campionati su tre, sei partite su sei…»
E l’anellino?
«Un giorno sto passeggiando con mia moglie sull’Adige, ormai è un paio d’anni che mi sono ritirato dal calcio che conta e sciaguratamente penso: ‘Ok, ora non mi serve davvero più’. Detto, fatto: me lo sfilo e lo lancio nel fiume…»
Temo già di conoscere il finale…
«Esatto. Ti ricordi la domenica che mi ruppi il ginocchio e persi la chance di andare in Canada a causa di un fallo assassino? Beh, fu quella la prima ed unica volta che giocai senza l’anellino al dito…»
Rubrica a cura di Simone Sacco (per comunicare: calciototale75@gmail.com)