Serie A
Sven-Goran Eriksson: il mister che non voleva che i calciatori giocassero per lui
Il ricordo per Sven-Goran Eriksson, ex allenatore svedese che ha guidato diverse squadre italiane come Roma, Fiorentina, Sampdoria e Lazio
Roma, Fiorentina, Sampdoria, Lazio: Sven-Goran Eriksson ha trascorso 14 dei suoi 76 anni di vita nel calcio italiano, guidando 4 club lungo tre decenni, dalla metà degli anni ’80 all’inizio del nuovo millennio. Ovunque ha portato la sua mentalità, il suo modo di essere, la sua pacatezza. Se si può associare il termine stile alla personalità di un allenatore, lui sicuramente è stato tra quelli che più ne permettono il nesso. Ha attraversato da signore un calcio polemico, spesso anche ferocemente e a maggior ragione quando lo si è etichettato come “perdente di successo”. La delusione per lo scudetto mancato clamorosamente con la Roma, con una rimonta sulla Juventus vanificata dalla sconfitta in casa contro un Lecce già retrocesso, dimostrò solamente una cosa: la sua freddezza poco poteva al cospetto di un ambiente incendiato dall’epica di una cavalcata che aveva assunto toni leggendari. Da anti-personaggio qual era, incuriosiva quell’aria di distacco, resa evidente anche dalla confessione che il calcio gli piaceva osservarlo dall’alto, laddove il “rivale” Giovanni Trapattoni proclamava il contrario, ritenendo suo dovere stare ad altezza campo, vicino ai giocatori.
A conti fatti, Eriksson è riuscito ad elevarsi e non poco, andando a iscriversi a quella schiera di mister stranieri che uno (o più) scudetti erano riusciti a conquistarli. Nomi come Arpad Weisz, Helenio Herrera, Nils Liedholm, Vujadin Boskov ed alcuni altri. L’impresa del 2000 con la Lazio suonò come rivincita anche personale, eppure da lui non emersero mai parole in tal senso. Già l’anno prima, quando era nella tempesta della critica perché stava per sfuggirgli un campionato che sembrava suo – ne beneficiò il Milan di Alberto Zaccheroni – portò la sua squadra ad alzare la Coppa delle Coppe. Il primo successo internazionale della Lazio, al quale poi sarebbe seguita la Supercoppa Europea sconfiggendo nientemeno che il Manchester United di un certo Sir Alex Ferguson. Eppure, nessuna parola fuori posto, se non la constatazione che la consacrazione fuori dall’Italia altro non era che il frutto di un percorso: «In questi due anni la Lazio ha dimostrato di essere questa realtà, una squadra forte e una società forte». Aggiungendo significativamente, quasi a proclamare un certo orgoglio anche per quando il successo lo si sfiora solo, senza raggiungerlo: «L’ importante non è vincere perché vince uno solo, l’ importante era esserci. Questa comunque è la vittoria di tutti».
Come certi scrittori che preferiscono lavorare nel levare aggettivi e orpelli alla loro narrazione, lo svedese sembrava costantemente cercare di mettersi un passo dietro – talvolta ance molti di più – rispetto ai giocatori. Un modo per andare oltre la normalità, creando un gruppo coeso, fortemente strutturato sulla capacità di dialogo di un gruppo nel quale convivevano molte stelle, basta leggere la rosa di quegli anni della Lazio per rendersi conto del capitale tecnico e umano a sua disposizione. «É molto bello se qualcuno gioca per me», raccontò al termine di una delle imprese del periodo, aggiungendo: «Ho sempre detto che non basta allenarsi insieme, che sono necessari anche rispetto, stima e fiducia. Ma che si parli di fedeli di Eriksson sono contento fino a un certo punto: perché chiunque capirebbe che questi giocatori sono dei campioni, indipendentemente dall’atteggiamento che hanno nei miei confronti».
Saranno in molti tra i suoi giocatori, e non solo in Italia, a ricordarlo con affetto, se possibile in modo ancora più forte di quanto fatto quando coraggiosamente ha deciso di rendere pubblica la sua malattia, salutandoci con un messaggio di forza e un inno alla vita. Tra i tanti, Roberto Mancini, il campione definito «genio» da Sven, il vulcanico leader che «quando lo sostituivo dovevo foderarmi le orecchie per non sentirlo…», raccontò il mister qualche anno fa. Mentre di lui Mancini, quando era ancora un giocatore, disse che aveva «un’intelligenza superiore agli altri». Conoscendone il carattere poco incline alle lusinghe verso i suoi superiori, si può capire l’importanza dell’affermazione rivolta a un grande uomo. Ci mancherà, molto.