Serie A

Spezia, Agudelo: «Sorrido anche se sbaglio, ma il mister poi si arrabbia»

Pubblicato

su

Kevin Agudelo ha rilasciato una lunga intervista a SportWeek dove ha parlato delle sue caratteristiche

Kevin Agudelo, attaccante dello Spezia, è una delle sorprese della squadra ligure. E il colombiano si è raccontato in una lunga intervista a SportWeek.

SORRISO – «È una caratteristica di famiglia. Mamma sorride sempre. Anche mia moglie Isabella l’ho conquistata così. Me lo ha confessato dopo, ma ha ammesso di avermi detto sì perché sono carico di energia positiva. Sorrido anche quando le cose vanno male, come l’altro giorno in allenamento: ho sbagliato un rigore e il mister mi ha detto: “Agu, ma è possibile che dopo un errore sorridi anche più del solito?. Ho risposto: “Ma sono colombiano, siamo fatti così, siamo felici, sempre”. E il mister si incazza (ride). Se sbaglio, penso: vabbè, fa niente, la prossima volta andrà meglio. Quasi tutti quelli che ho conosciuto in Italia mi chiedono perché rido sempre. Non lo so, so che ho provato a essere più serio, ma se non sorrido mi manca qualcosa, è come se non fossi io». 

NUOVO RUOLO – «Si fanno male Nzola e Piccoli e l’allenatore mi chiede: “Agu, ma qualche volta hai giocato da centravanti?”. “Mister non l’ho mai fatto, ma, se me lo chiedi, provo”. E rido, perché per me era una cosa nuova, proprio non ci pensavo. Nel nuovo ruolo gioco per la prima volta in Coppa Italia a Napoli, entro nell’intervallo al posto di Galabinov infortunato. Dopo, Italiano mi fa: “Ma sei sicuro?”. E io: “Sì, sì, lasciami lì”. Adesso i compagni mi chiamano Kun Agudelo, giocando col soprannome di Aguero, il centravanti del City». 

UNO CONTRO UNO – «Mi piace puntare il difensore e saltarlo. Mi piace da quando ero bambino. Prendevo palla davanti alla mia area e provavo a dribblare gli avversari uno a uno, tutti, iniziando dagli attaccanti, fino ad arrivare dall’altra parte del campo e fare gol. E non mi importava se erano più alti e grossi. Ricordo un mio allenatore, Luis Carlos Penaranda, avrò avuto dodici anni, che mi ripeteva: “Ma vuoi capire che, se perdi palla davanti alla nostra area perché trovi uno più bravo di te, finisce che prendiamo gol?”. All’epoca ero un Under 13. Un giorno, in allenamento, Penaranda chiamò uno di 17 o 18 anni e gli disse: “Se comincia a dribblare già a metà campo, lo butti giù. Se ci prova solo negli ultimi sedici metri, lo lasci andare”. Così ho imparato a giocare più facile in mezzo al campo e a fare quello che voglio solo davanti».

Exit mobile version