2016
Sandro Tovalieri: «Roma-Lecce ’86 è una ferita giallorossa che non si saturerà mai»
A distanza di trent’anni ci siamo fatti raccontare dal Cobra uno dei più grandi e incredibili harakiri del calcio italiano…
Domani saranno tre decadi esatte da una primavera italiana che definire ‘intensa’ sembrerebbe riduttivo. Il 20 aprile 1986, nella nostra Penisola, si facevano ancora i conti con un missile libico lanciato chissà come sulle coste di Lampedusa. Ci si sentiva machi sulle note soul di ‘You can leave your hat on’ del compianto Joe Cocker. Kim Basinger aveva appena 32 anni, la sua sottoveste bianca pareva incandescente ed era pure scoppiata l’estate in anticipo (sei giorni dopo sarebbe scoppiato anche un reattore della centrale nucleare sovietica di Chernobyl, ma quella purtroppo fu un’altra storia, decisamente più drammatica). E quel giorno, domenica, si giocava la ventinovesima giornata del campionato più bello del mondo. La penultima visto che quella era una serie A (una gran bella serie A) ridotta ad appena sedici squadre. Ah, dimenticavo: si trattava di un turno oltremodo decisivo…
Tanto per cambiare la Juventus stava concorrendo per il titolo, ma appaiata a lei – a quota 41 punti – c’era una Roma specializzata in miracoli: otto lunghezze di vantaggio mangiate ai bianconeri (che alla fine del girone d’andata s’erano già cuciti sul petto un 70% di scudetto) grazie alle zona scientifica di Sven-Goran Eriksson e ai gol (tanti) di Bomber Pruzzo. Gli juventini erano in debito d’ossigeno (Platini, per problemi alla schiena, giocava praticamente da fermo), i giallorossi al contrario filavano come treni merci nella notte. Forse troppo. Il clamoroso sorpasso era nell’aria oppure, visti gli ultimi due scontri in schedina, lo spareggio in gara secca non era più considerato un tabù innominabile. E invece ci si mise di mezzo il Lecce che, in quel ’85/’86, assaggiò per la prima volta il duro pane salato della massima categoria. Quel povero Lecce già matematicamente retrocesso, formato da gente come Franco Causio, Beto Barbas (campione del mondo juniores nel ’79 con un certo Maradona), Juan Pablo Pasculli (futuro campeon a Messico ’86, uno che in Salento ci avrebbe poi messo le radici), i fratelli Alberto e Stefano Di Chiara e il nostro attuale CT, Antonio Conte.
Una squadra di presunti peones che, grazie ai gol dello stesso Alberto Di Chiara e di Barbas (doppietta di cui la prima rete su rigore), vinse clamorosamente all’Olimpico 3-2, spedì la Maggica all’inferno regalando di fatto il titolo agli increduli ragazzi di Trapattoni vittoriosi a loro volta su di un Milan fresco di presidenza berlusconiana. Fu una storia di calcio pazzesca, impressa nella memoria collettiva e non priva della sua buona dose di cospirazionismo. Una vicenda che – non ce ne vogliano i tifosi romanisti… – vorremmo ora farvi rivivere grazie alle parole importanti di un testimone che quel giorno calpestò l’erba dell’Olimpico: Sandro Tovalieri. Il futuro Cobra del nostro football all’epoca era ancora un promettente bomberino, eppure già degno di indossare la maglietta della Lupa. E ‘Cobra’, giusto per la cronaca, è anche il titolo della sua sincera autobiografia uscita qualche mese fa per Ultra. Ok, abbiamo scritto fin troppo: è giunto il momento di azionare la nostra macchina del tempo.
Sandro, sei mai riuscito a superare il trauma di quel Roma-Lecce?
«No, mai. Anche volendo, come potrei? Quella fu davvero una delusione tremenda, tuttora indescrivibile a parole. Anche perchè io, all’epoca, avevo appena ventun’anni compiuti. E vincere uno scudetto a quell’età – con la maglia della Roma, poi – mi avrebbe consacrato all’immortalità. Ed invece…».
C’eravate quasi.
«Sì, avevamo recuperato ben otto lunghezze sulla Juventus (all’epoca si giocava ancora con i due punti per vittoria, Ndr) e poi buttammo via tutto nella partita decisiva. E come ciliegina sulla torta si scatenarono pure i sospetti perché non era concepibile perdere contro quel Lecce: una squadra apparentemente demotivata, già condannata alla serie B, che finì il campionato a 16 punti collezionando solo una vittoria esterna. Indovina quale? (sospira)».
Roma 85-86, archivio storico Roberto Tedeschi
Lo hai detto tu: ci furono dei sospetti. Delle voci strane..
«Tutte balle. La gente dimentica un particolare importante: già la settimana prima, quella dell’agognato aggancio alla Juve, rischiammo di perdere col Pisa alla vecchia Arena Garibaldi. Fine del primo tempo: 2-1 per i nerazzurri. Rientrati negli spogliatoi, ci arrabbiammo come delle bestie e nella ripresa gliene facemmo tre: Pisa 2 Roma 4. Pensavamo di ripetere la stessa scena anche coi leccesi, ma lì purtroppo la palla non ne volle sapere di entrare. E dire che tirammo cinquanta volte tra i legni, ma quel portiere fu davvero un diavolo (Giordano Negretti, subentrato all’infortunato Ciucci, Ndr).».
Tu entrasti al 68′ e assistetti da vicino al gol inutile di Roberto Pruzzo. Quello del 2-3 che lo laureò capocannoniere.
«Panchina o campo, il clima era sempre lo stesso: caldo soffocante nell’aria e pubblico in preda ad una crisi di nervi sugli spalti. E di fronte quel Lecce così poco demotivato. Talmente cinico ed arrembante da produrre tre contropiedi e fare tre gol. La partita fu tutta lì…».
L’Italia si domandò (e lo fai pure tu nel tuo libro ‘Cobra’) perché la formazione salentina, proprio quel giorno, fu così spiritata e vogliosa di vincere…
«Bella domanda. Il calcio è bello proprio perché è fatto di queste sorprese. Massimo rispetto per quel Lecce che approfittò della nostra analisi sbagliata. E della nostra sfiga, certo, perché la Roma ha sempre avuto parecchia sfiga nelle partite decisive. Pensa al Liverpool…».
Sandro Tovalieri al Bari, foto Giuseppe Corcelli
Cosa intendi per “analisi sbagliata”?
«Forse noi, in settimana, cademmo nell’errore di convincerci che lo scudetto fosse già roba nostra. Quel terzo scudetto che la Roma avrebbe vinto solamente nel 2001, quindici anni più tardi. E comunque era un pensiero inevitabile: dovevamo incontrare il Lecce già retrocesso e il Como già salvo. La Juve, invece, aveva il Milan ancora in corsa per un posto in Uefa e lo stesso Lecce. Pensavamo davvero di fare quattro punti facili e, nella peggiore delle ipotesi, giocarci il campionato nello spareggio.».
Spareggio che sarebbe stato difficilissimo da incastrare. Quel campionato finì il 27 aprile e il 31 maggio cominciavano già i Mondiali in Messico. Tant’è che la finale di Coppa Italia fu giocata il 14 giugno mentre lo stesso Mundial era nel pieno del suo svolgimento. Troppo intasamento, Cobra?
«Guarda, se ci fossimo arrivati a quel benedetto spareggio, una data la si sarebbe comunque trovata e quello per noi era davvero l’ultimo dei pensieri! (ridacchia) Tra l’altro quella Coppa Italia la vincemmo pure ed io segnai in una delle due finali contro la Sampdoria. La grande Roma, a quel punto, era tornata a festeggiare di fronte a 70mila tifosi. Solo che fu troppo tardi.».
Dopo il Lecce, perdeste anche col Como mentre la Juventus festeggiò il suo 22esimo scudetto – ironia della sorte – proprio in Salento. Magari con una vittoria sul lago avreste tenuta accesa la fiammella fino all’ultimo…
«No, sul serio, quel giorno non ci credevamo più. Era quasi scontato che la Juve vincesse o pareggiasse la sua partita, anche se effettivamente nel calcio non si può mai sapere… La verità è che, dopo la disfatta dell’Olimpico, eravamo completamente svuotati. Le nostre gambe avevano smesso di girare. Fu il black-out completo.».
Il vero vincente di quella Roma (scesa in campo contro il Lecce) fu senz’altro Carlo Ancelotti per tutto quello che avrebbe poi combinato al Milan e come tecnico di club. Pensi che anche lui, il 20 aprile, verrà assalito da qualche brutto pensiero?
«Per me sì perché i giornali soffieranno su questa dannata ricorrenza e Carlo è uno che i media li segue, nonostante oggi abbia il Bayern Monaco nella sua testa. Lo sai cosa non mi dimenticherò mai di quel giorno? Il ritorno a Trigoria per la ripresa degli allenamenti: al sabato c’erano trentamila persone in festa, al martedì trecento tifosi che non riuscivano a spiaccicare parola. Fu terribile, decisamente terribile!».
Quel ’85/’86 fu anche la tua unica stagione alla ‘Maggica’…
«Sì, l’anno dopo andai all’Avellino e non tornai più indietro, diventando però l’idolo dei tifosi baresi. Il Cobra, d’altronde, nasce in Puglia, non nella Capitale. Perché abbandonai la Roma? Forse perché la società pretendeva più gol da me ed io quell’anno ne feci tre in campionato e otto in Coppa Italia sfiorando il titolo di capocannoniere della manifestazione. E comunque volevo giocare, non fare la riserva.».
Il problema dei “giovani non valorizzati” esisteva anche allora?
«No, fortunatamente no. Quello era ancora un calcio che le tue belle chance sapeva dartele. Fai conto che la mia prima rete in serie A la segnai al San Paolo contro il Napoli di Maradona! Oggi i giovani, se vogliono emergere, devono fare delle scelte più dure: scendere di categoria o andare all’estero. Non va bene: la linea verde resta un valore.».
A proposito, chi è il Cobra di quest’epoca?
«Fino a qualche anno fa sicuramente Pippo Inzaghi. Oggi direi Miro Klose per la freddezza che continua a conservare in area di rigore. Ma anche qui il calcio è cambiato: sono sempre più rari gli attaccanti di di razza, quelli che vivono costantemente negli ultimi sedici metri, pronti a colpire con il loro ‘morso’.».
Meglio o peggio secondo Tovalieri?
«Non lo so: a volte vedo dei buoni voti in pagella a degli attaccanti che hanno fatto movimento per tutta la partita, però non segnano. Pensa ad uno come Dzeko: ok, gioca per la squadra ma finora ha gonfiato poco la rete. Per me che vengo da un’altra epoca significa che forse qualcosa non quadra…».
Tovalieri e Zeman, foto Sandro Tovalieri
‘Cobra – Vita di un centravanti di strada’, l’autobiografia di Sandro Tavolieri scritta con Susanna Marcellini è attualmente disponibile nelle migliori librerie.
Sandro Tovalieri, Cobra
Intervista a cura di Simone Sacco ; per comunicare: calciototale75@gmail.com