2016

Rossi: «No al Napoli? La Juventus fece il vuoto»

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«Leicester? Nel calcio non contano solo i soldi, ottima lezione»

Figlio di un impiegato in un’azienda di trasporti e di una casalinga e sarta, Paolo Rossi è diventato un calciatore della Juventus nel 1972, quando aveva sedici anni. E nonostante le iniziali perplessità, lo hanno sempre sostenuto: «Mia madre non voleva perché due anni prima era andato mio fratello ma la cosa non aveva funzionato, non andava bene negli studi. Poi decisero, sapendo che si stava realizzando il mio sogno, di non tarparmi le ali. Però ogni quindici giorni prendevano la loro NSU Prinz, la macchina più brutta della storia di cui mio padre era però molto orgoglioso, e si mettevano in viaggio. Loro due si facevano cinquecento chilometri ad andare e altrettanti a tornare. Per me. Me ne sono ricordato il giorno che sono tornato a Prato dopo la vittoria al mondiale. Mio padre era molto orgoglioso che mi portassero in comune, in piazza, come un eroe. Io non smettevo di cercarlo con lo sguardo, tra la folla. E lo vedevo felice. Per me», ha raccontato l’ex attaccante al Corriere dello Sport.

I “MAESTRI” – Allevato da Grosso e Castano, Rossi ha imparato qualcosa da tutti gli allenatori che lo hanno accompagnato nella sua carriera. Ma ne cita due in particolare: «Giovambattista Fabbri e Enzo Bearzot. Arrivai al Vicenza a venti anni, Fabbri aveva nelle mani il potere di decidere se io sarei stato fuori o dentro il calcio. Non mi cambiò solo ruolo, intuendo che era giusto quello di centravanti, ma mi cambiò anche la testa. Diventai grande, con lui. Era un uomo vero. Mi trattava come fossi suo figlio. Ogni tanto vedeva che ero pallido e allora mi portava a casa sua e diceva alla moglie di cucinare la bistecca migliore. Per me è stato importante, molto. E Bearzot? Una persona speciale. Era sempre serio, rigoroso. Ma era anche un uomo dolce e pieno di senso dell’umorismo. Lui la sera faceva il giro delle camere e quando arrivava da me, sapendo che amavo l’arte, si metteva a parlare di pittura e non finivamo mai. Era colto, appassionato di storia. Un persona profonda e sincera. Forse un uomo di altri tempi, se non fosse triste definirlo così».

SUL TETTO DEL MONDO – Inevitabile allora il riferimento al mondiale per il quale Rossi è entrato nella storia del calcio: «All’inizio per me è stata dura: non segnavo, non giocavo come volevo. Ma, in quei giorni difficili, mi hanno sostenuto tutti. Alla fine di quelle partite storte Bearzot mi batteva una mano sulla spalla e mi diceva di pensare alla prossima partita. In verità fece lo stesso anche dopo i tre gol al Brasile. Lo ricordo come fossi oggi. Lui si sedette a fianco a me sul pullman e io mi aspettavo i suoi complimenti. Invece mi mise una mano sulla gamba e mi disse “Bene, ora pensa alla semifinale”. Allora ci rimasi male, ma ora capisco meglio la tensione che ci voleva trasmettere; non voleva che ci stordissimo per quel risultato fantastico. Dopo la semifinale e dopo la finale scese in campo e mi abbracciò. Era la prima volta che lo faceva. In quella stretta c’era tutto. Non servivano parole. C’era riconoscenza, affetto, incoraggiamento, calore». E in quel mondiale arrivarono un successo e una gioia che nessuno si aspettava: «Anzi tutti avevano già pronte cassette di pomodori da tirarci al rientro. Dal secondo turno, noi abbiamo vinto dominando e dominando le squadre più forti del mondo. Vincemmo e divertimmo, giocammo un calcio bello come sa essere il nostro al massimo livello. Per queste due ragioni quella di Spagna è una “vittoria particolare”. Le aggiungo che l’Italia usciva dalla lunga notte del terrorismo e aveva voglia di gioire e di tornare nelle piazze a sorridere».

GLI ATTACCHI – In quel torneo la Nazionale optò per il silenzio stampa. Rossi ne spiega i motivi: «La goccia che fece traboccare il vaso fu quel famoso articolo in cui, ironizzando in modo non brillante, si diceva che io e Cabrini eravamo la “Muchacha“ e l’”Hombre”. Fesserie che però fecero il giro del mondo. Ma non dipese solo da quello. Ci sentivamo sotto attacco a tappeto, la stampa si inventava di tutto. Eravamo come l’orso da colpire con la pallina al circo. Allora un giorno ci riunimmo e decidemmo che bastava così. Che da quel momento avrebbe parlato solo Zoff, il che sembrava una presa in giro, vista la nota loquacità di Dino, ma era lui il capitano e il più saggio di noi. Il Presidente e il capo ufficio stampa non erano d’accordo ma Bearzot fu decisivo, disse che quello che voleva la squadra lui lo avrebbe condiviso. Eravamo coscienti che questa scelta ce l’avrebbero fatta pagare duramente se le cose fossero andate male. Ci chiudemmo in noi, rischiammo ma vincemmo. E il giorno dopo eravamo, ovviamente, tutti dei campioni eroici. Come diceva quel film? “E’ la stampa, bellezza”. Ma forse anche quegli attacchi hanno avuto un merito, nella nostra arrabbiata riscossa».

“DUE ANNI PER DUE MINUTI” – Ma Rossi ha vissuto momenti ben più difficili nella sua carriera, cioè la squalifica di due anni: «Non mi sembra vero di aver sopportato un’ingiustizia così grande. Due anni per due minuti. Io sono stato condannato dalla giustizia sportiva, quella ordinaria mi ha assolto, perché un giorno un mio compagno di squadra mi ha fatto conoscere un tipo che non mi è piaciuto affatto da subito. La partita della quale si parla tutti noi del Perugia la giocammo sul serio. La cosa più dura, oltre alla squalifica, fu vedere negli occhi dei miei genitori, dei miei compagni un’ombra di sospetto. Questa è stata la ferita più dura». Il rientro fu un nuovo esordio per Rossi, che tornò a sentirsi un ragazzino, emozionato e insicuro: «Ho avuto, in quel periodo orrendo, il conforto dell’amicizia di Cabrini, Tardelli, persone fantastiche, con i quali siamo restati legati fino ad oggi». E a proposito di momenti brutti c’è l’Heysel: «Noi non abbiamo visto e vissuto il momento della tragedia. Eravamo negli spogliatoi e arrivavano solo voci confuse. Ci dissero che dovevamo giocare, giocammo. Era qualcosa di irreale, di onirico. Io poi ho un’immagine fissa davanti agli occhi: quando ci fecero andare via con il pullman io vidi, allineata fuori dallo stadio, una fila di corpi coperti da lenzuoli bianchi. Non posso dimenticarlo, trentuno anni dopo».

RICHIESTE E RIFIUTI – Non mancano le curiosità, come la lite con Boniperti al momento della firma del contratto: «Aveva l’usanza di arrivare a Villar Perosa, nel ritiro della squadra, con le cifre già scritte sul contratto. Aveva già deciso tutto, poteva mandarceli per posta. Lui divideva i giocatori in tre fasce. Discutere poco, firmare molto. Quell’anno io, Tardelli e Gentile chiedemmo un aumento. Avevamo appena vinto un mondiale, volevamo quindici milioni in più, settemila euro, mica la luna. Ci irrigidimmo ma alla società non fecero una piega. I primi mesi, dopo questa vicenda in cui fummo anche additati come avidi, furono duri. Una mattina Agnelli mi telefonò e mi disse “Paolo, è vero che ha qualche problema con Boniperti? Non si preoccupi tutto si risolverà”. Faceva sempre così, io non gli ho mai sentito mutare il tono di voce e tantomeno l’ho visto alterato». Poi quella sul rifiuto al Napoli: «La Juventus non voleva riprendermi ma non voleva neanche che le sue concorrenti mi ingaggiassero. E allora la Juve sapeva fare il vuoto, nel mercato. Si fece avanti il Napoli e io parlai con Ferlaino. Gli dissi che non volevo fare la bandierina ma che il mio trasferimento aveva un senso solo se si fosse allestita una squadra per vincere il campionato. Il discorso finì lì. Mi prese il Perugia con il geniale presidente D’Attoma che si inventò una formula particolare di prestito. Per sostenere quell’impegno arrivò in serie A il primo sponsor, il pastificio Ponte. La farà sorridere ma pensi che io avevo un contratto pubblicitario firmato con un concorrente nel settore, la Polenghi Lombardo, per cui giocai le prime tre partite del campionato senza lo sponsor. Poi le due società si misero d’accordo. Così ha preso forma l’era degli sponsor del calcio italiano».

GRANDI IMPRESE – Nella settimana in cui si celebra il successo del Leicester in Premier League, Rossi ricorda le gesta del Lanerossi Vicenza, che arrivò secondo in campionato dietro la Juventus: «Noi eravamo persino più piccoli. Ma eravamo uno strano miscuglio di talenti, giocatori a fine carriera, calciatori medi. Ma, come succede raramente, quel miscuglio produsse una bibita meravigliosa. Merito di Fabbri e di tutti noi. Io sono felice di quello che ha fatto il Leicester. Ha dimostrato che al calcio non contano solo i soldi. Questa storia inglese restituisce fiducia, motivazione e poesia a tutto il calcio mondiale. Si può essere piccoli e vincere. Ottima lezione». 

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