2012
Roma, Osvaldo: “Italia estrema, picchierei un compagno venduto”
GOSSIP ROMA OSVALDO – Attaccante poliedrico, Pablo Daniel Osvaldo è così anche fuori dal campo: uno di quelli in grado di spaziare su più argomenti, dal calcio alla filosofia, senza fare una piega. Il giocatore della Roma si è raccontato per GQ, in edicola il 29 novembre.
“Io cerco di essere sempre me stesso, nel mondo in cui lavoro è difficile. Viviamo in un’anormalità oggettiva. Il mio idolo? Joaquin Sabina (un rivoluzionario antifranchista, ndr), una persona che per sostenere un’idea ha messo a rischio la sua vita. Un poeta. Un grande narratore. Ti restituisce l’illusione che parli proprio di te. E poi Frédéric Beigbeder. Un nichilista che crede nel dogma della velocità. Se non siamo certi di vedere il domani, dice, è meglio correre”, racconta l’italo-argentino.
Sul suo arrivo in Italia, all’Atalanta, nel gennaio 2006: “Il 12, compivo 20 anni. Un freddo cane, la neve, l’albergo in mezzo al nulla, circondato dai silos di Zingonia. Arrivato in camera, ho iniziato a piangere. Fu dura. Non c’era un solo argentino, uno straccio di uruguaiano. Ero lontanissimo da casa, i compagni ridevano tra loro. Parlavano una lingua che non capivo. Diventai un po’ paranoico. Pensavo ridessero di me. Poi andò meglio e mi integrai. Colpa delle parole? A volte non ne serve neanche una. Basta uno sguardo. Se con Zeman ci capiamo a gesti? No, non solo almeno. Parliamo“.
Ma Osvaldo, non fosse calciatore, cosa sarebbe oggi? “Potrei dire il musicista rock o blues, o lo scrittore. Scrivere mi piace. Poesie e canzoni. Ieri rispondevo: ‘Voglio giocare a calcio’. Sguardi storti: ‘E se non arrivi?’. E io duro: ‘Non esiste. Io arrivo’. Oggi, quando gioco con i miei amici sembrano finali da Mundial. Erano ragazzi, adesso hanno la pancia, ma è la stessa cosa. Io gioco in porta. Se poi perdiamo, lascio i guanti e torno in attacco. Perdere non mi piace”.
Sul rapporto con i tifosi: “Ogni tanto vorrei essere una persona qualsiasi. Andare in una piazza. Se è difficile? In Italia sì. A Barcellona lo facevo, andavo in Plaça de Catalunya con un mio amico, lui faceva ritratti ai passanti, io suonavo la chitarra. Non mi riconoscevano. Era bello. È affascinante la semplicità. In Italia non c’è mai una via di mezzo. Un giorno sei da scudetto e quello dopo da rogo. La mancanza di equilibrio mi fa infuriare, però non posso farci niente. E non ho voglia di fare niente. Se il pubblico fa bene a contestarci perchè paga? Ma neanche per sogno! Io perdo una palla e tu mi vomiti addosso il tuo odio? Non è normale… E quindi se il tifoso sbaglia al lavoro posso andare a picchiarlo, gettargli una banana o dirgli che sua madre è una poco di buono? Bella logica“.
Argomenti tabù, i gay nel calcio ed il calcioscommesse: “L’omosessualità? La nostra società non è l’Alabama del ’50, ma sul tema siamo indietro. Un compagno gay in squadra? Non mi cambierebbe proprio niente. Sono persone libere, prima ancora che calciatori. Un comagno venduto? Non lo denuncerei, perchè ciò che succede nello spogliatoio deve restare lì. Io non faccio il delatore, ma non mi volto dall’altra parte. In silenzio, lo ammazzo di botte“.