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Roma-Lecce 2-3, Antonio Di Carlo: «Se la rigiocassimo 100 volte vinceremmo 101. Sono amico di tanti giocatori dell’epoca, anche laziali, e ci troviamo sempre al mio ristorante…»

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L’ex calciatore della Roma è tornato a parlare di uno degli argomenti sportivamente più tristi della storia giallorossa

Roma-Lecce 2-3 del 1986 è una gara che si ricordano tutti. Perché incredibilmente spezzò il sogno scudetto dei capitolini, che persero in casa contro una formazione già retrocessa. Su La Gazzetta dello Sport ne ha parlato Antonio Di Carlo, uno dei componenti di quella squadra che ha vissuto quella domenica di disfatta e che oggi fa il ristoratore, con giocatori di Roma e Lazio spesso alla sua tavola.

A TAVOLA – «Torniamo ragazzi, ci prendiamo in giro. A me appena inizio un discorso mi stoppano: “Sta zitto tu che hai 5 minuti di serie A alle spalle”. Faccini invece è per tutti sempre la riserva di Pruzzo che “ha segnato un gol solo in carriera” il primo della stagione dello scudetto del 1983 in Cagliari-Roma. Con molti ex compagni di Roma e Lazio andiamo anche in vacanza insieme. Il nostro era un altro calcio. C’era la rivalità in campo, ma fuori eravamo amici. E oggi ci divertiamo a ricordare il passato e a commentare il presente. Tra un bicchiere di vino, un piatto di pasta e una presa per il culo che dura da 40 anni e spesso è sempre la stessa, ma ancora ci fa ridere»


LA ROMA
– «Nella Roma ho giocato 74 partite tra campionato e Coppe, ma in qualche modo ho lasciato un segno. Un gol sotto all’incrocio dei pali in un derby di Coppa Italia vinto 2-0. Una tripletta in serie A a Cremona, forse la mia più grande soddisfazione. Ma l’ultimo fotogramma però è di una tristezza infinita, perché io c’ero quel maledetto 20 aprile 1986: titolare nella partita più folle della storia della Roma e forse del calcio italiano…».

ROMA-LECCE 2-3, COME É STATO POSSIBILE – «Non lo so, non lo so. Ma se avessimo rigiocato quella partita 100 volte, l’avremmo vinta 101. Vincemmo la Coppa Italia, ma non riuscì a consolare nessuno».

I DUE ALLENATORI DELLA SUA CARRIERA – «Orrico a Carrara e Eriksson a Roma. Lo svedese era un signore, stravedeva per me. Orrico invece mi correva dietro col bastone nella famosa gabbia che aveva inventato in quegli anni. Ero un po’ testa calda: pretese che mio padre venisse a vivere con me. Ero l’unico calciatore accompagnato dai genitori».

LA SUA SECONDA VITA – «Presi in gestione una discoteca all’Argentario, dove c’era anche una zona ristorazione. Praticamente mi comprai il lavoro. Incominciai ad imparare a gestire: costi, acquisti. Ho fatto esperienza».

SA CUCINARE – «Zero, sono una pippa ai fornelli. Ma so mangiare… Ho aperto Il Frantoio nel 2005, all’inizio è stato faticoso perché la gente al ristorante la puoi saper portare, ma poi devi farcela rimanere. Buon cibo, semplicità, allegria ed il locale è esploso».

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