Roberto Tricella, libero di cambiare - Calcio News 24
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2014

Roberto Tricella, libero di cambiare

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tricella

«I primi mesi senza calcio sono stati tremendi. Ma per Juventus-Verona di Coppa Campioni ho sofferto di più…»

Parte oggi su CalcioNews24 una nuova rubrica a cadenza settimanale intitolata inevitabilmente (dato il tema) ‘Tempi Supplementari’. In pratica siamo andati in giro per l’Italia a intervistare tutti quegli ex calciatori (sono tantissimi, ben più di quel che potreste immaginare) che, terminata l’attività agonistica, si sono messi a fare altro nella vita. Non l’allenatore, l’agente, il dirigente o l’opinionista (troppo prevedibile), ma lavori lontani anni luce da tacchetti, urla del mister e sovrapposizioni. Lavori normali perché, scesi dalla Grande Giostra del Pallone, anche per loro la vita – fortunatamente – continua.

Partiamo quindi con la bella storia di Roberto Tricella, classe 1959, libero con delega alla regia arretrata e indimenticabile capitano dell’Hellas Verona campione d’Italia ‘84/’85. Bell’annata, quella: prima e unica volta nella storia del torneo a girone unico che lo scudetto fece visita in provincia. E proprio in provincia, nella placida Cernusco sul Naviglio, Tricella è tornato a vivere dedicandosi ad una carriera edile che lo assorbe come ai bei tempi dell’Osvaldo (Bagnoli). «Le maglie delle mie squadre (oltre al Verona anche l’Inter, la Juventus e il Bologna, NDR) le tengo a casa: pulite, chiuse dentro uno scatolone, in soffitta. Per me sono soltanto dei ricordi: non delle reliquie da venerare». Che, appunto, stanno bene dove stanno. Altrove.
   
Partiamo dalla fine: la tua ultima stagione in forza al Bologna (‘91/’92) segna zero presenze in serie B mentre l’anno prima lottavi ancora in Coppa Uefa. Cosa successe esattamente?
«Decisi di rompere amichevolmente il contratto con la Società: il cosiddetto ‘accordo consensuale’. Da lì provai a cercare altre squadre (esclusivamente di serie A perché a quell’età non mi andava di retrocedere), ma purtroppo non trovai più nessuno per via di un guaio muscolare. E così a 32 anni divenni ufficialmente un ex.»

Nessun rimpianto?
«Forse uno sì visto che nell’estate del ’90, quando stavo per trasferirmi dalla Juventus al Bologna, mi arrivò una proposta inaspettata dal Nantes che, manco a farlo apposta, vinse la Ligue 1 a metà anni ‘90. La mia prima reazione fu di stupore: ‘Il Nantes? E che ne sanno di me questi francesi?’ (ride) Semplicemente il loro allenatore Miroslav Blaževic (lo stesso che condusse la Croazia al terzo posto nei mondiali di Francia ’98, NDR) mi aveva visto giocare anni prima durante un’amichevole tra Italia e Jugoslavia. E s’era invaghito del mio modo di giostrare la difesa.»

Apro una parentesi: il tuo rapporto con la Nazionale – tra l’epoca di Enzo Bearzot e la successiva di Azeglio Vicini – si è fermato a 11 presenze. Solo che di queste, ben 10 furono convocazioni per delle semplici partite amichevoli…
«Eh, d’altronde per i Mondiali di Messico ’86 eravamo già qualificati d’ufficio… E poi a quei tempi finii schiacciato tra due mostri sacri come Gaetano Scirea e Franco Baresi. Ok, io non posso neanche paragonarmi a due figure del genere però lasciami dire che c’è stato un periodo, coinciso coi bei tempi veronesi, in cui mi sono sentito veramente forte e pronto a lottare per una maglia. Anche perché all’epoca Gai era in leggera flessione atletica per ragioni d’età mentre Franz non era ancora diventato il Baresi stellare del Milan di Sacchi.»

Domanda impossibile: meglio Scirea o Baresi?
«Gai era più completo, faceva tutto con una naturalezza incredibile, avrebbe anche potuto giocare in attacco; Franco è stato imbattibile a capo della difesa con quei suoi movimenti rapidi e chirurgici. Riassumendo direi: Scirea dieci e lode, Baresi dieci e lode (meno).»

Torniamo al tuo addio al calcio: i primi mesi senza pallone come sono stati?
«Terribili. Sai, avevo questo malessere fisico dovuto al fatto che non potessi più allenarmi tutti i giorni. Una sofferenza pazzesca perché, in oltre quindici anni di carriera, penso – da sano – di non aver mai saltato un singolo allenamento: correre e sudare mi piaceva un sacco. Posso aggiungere una cosa?»

Prego.
«Mi chiedevi dell’addio al calcio. Ecco, uno può prepararsi mentalmente quanto vuole, ma finché non smetti in maniera definitiva è difficile ricreare quella situazione nella tua testa. Immaginarti quel che sarà. Sono arciconvinto che il 90% dei calciatori, se il loro fisico reggesse, ritarderebbero il più a lungo possibile quel passo fatidico…»

Tu come uscisti da quella malinconia?
«Buttando anima e corpo nell’attività che svolgo tuttora: gli investimenti immobiliari. Quand’ero a Bologna acquistai alcuni terreni con l’obbiettivo di farli fruttare costruendoci sopra case. Solo che all’inizio delegavo volentieri agli altri visto che avevo la partita della domenica tra i miei pensieri principali. In seguito decisi di provarci in prima persona ed ebbi la fortuna di inserirmi in un team già rodato.»

E da allora non ti sei più guardato indietro.
«No perché questo è un mestiere che ti assorbe parecchio. E, a differenza del pallone, ha tempistiche medio-lunghe. Nel calcio ti contestano dopo due gare giocate male, qua – tra comprare un terreno, ottenere i permessi e partire con gli scavi – possono anche passare dieci anni.»

Tra i tuoi mister storici hai avuto nomi importanti come Osvaldo Bagnoli (ovviamente), Dino Zoff, Gigi Radice oltre ai già citati Bearzot e Vicini. Solo che l’ipotesi-panchina non ti ha mai sfiorato…
«Meglio così perché oggi gli allenatori sembrano tutti dei manager degni di una multinazionale! A volte si arriva al paradosso che, per parlare con il campione di turno, devi passare attraverso il suo procuratore… No, non è roba che fa per me. Al massimo avrei gradito dedicarmi ai settori giovanili. Mettere su un progetto ‘verde’ assieme a qualche collega fidato, ma è rimasto un sogno nel cassetto.»

Lo scudetto del Verona, invece, quel cassetto l’ha scardinato per bene. Tramutandosi da sogno in splendida realtà…
«Di quella magica squadra e del suo fantastico mister si è raccontato tutto. Perfino che appendevamo la formazione ufficiale (scritta rigorosamente a biro) con un cerotto al muro dello spogliatoio pochi minuti prima di scendere in campo: te lo immagini oggi con gli iPad e le lavagne elettroniche? Aneddoti a parte, però, vorrei ribadire che quel torneo, vinto restando in testa dall’inizio alla fine, non fu un caso fortuito. Bensì il frutto di un team che, prima e dopo lo scudetto, fece comunque bene.»

Tranne l’anno successivo, nel ‘85/’86, quando dal primo scendeste drasticamente al decimo posto. Troppo appagamento?
«Mah, io a questa sindrome dell’appagamento non ci ho mai creduto granché perché nello sport, esattamente come nella vita, l’appetito vien mangiando… Il crollo del Verona targato 1986 avvenne in seguito ad una banale impostazione tattica. L’anno prima ci divertivamo ad attendere l’avversario generando dei contropiedi micidiali. Nel post scudetto, invece, ci mettemmo a fare tanto possesso palla e – zac! – ecco che al primo errore capitolavamo di brutto. In pratica da predatori eravamo diventati prede

Prede, forse, lo foste anche negli ottavi della Coppa Campioni ‘85/’86, l’unica mai giocata dall’Hellas.
«Sapevo che alla fine mi avresti fatto questa domanda!»

Mi tocca. Scontro fratricida con la Juventus: 0-0 al Bentegodi e al ritorno (giocato a porte chiuse in un Comunale freddo come un acquario) 2-0 per Platini e soci con polemiche veronesi a non finire…
«Quella gara, diretta dall’arbitro francese Wurz, non mi è mai andata giù. Ebbi la percezione, dal terreno di gioco, che qualcosa non quadrasse….»

Robert Wurtz già nel 1973 diresse la finale di Coppa di Francia tra il Nantes (e dagli!) e l’Olympique Lyonnais. Vinse il Lione 2 a 1 e un difensore del Nantes esclamò a fine gara: «Ok, stasera ha arbitrato Ray Charles»…
«Mettiamola così: dopo anni e anni di carriera, un giocatore lo capisce quando un arbitro vuole ‘indirizzare’ una determinata partita. Sono cose di cui ti rendi conto esclusivamente dal campo, sugli spalti o in televisione non filtrano a dovere. Da cosa lo comprendi? Beh, basta giusto qualche punizione a centrocampo di troppo. Dei falli fischiati in area a favore della squadra che difende ancor prima che arrivi la palla… Tutto qui. Sensazioni vissute in prima linea

Acqua passata. E poi ti resta pur sempre l’orgoglio di un irripetibile (?) scudetto gialloblù che, a Milano o Torino, ne varrebbe come minimo dieci…
«Può essere, ma chi sono io per sminuire la gioia di chi ha vinto campionati a iosa? Uno scudetto è sempre bello, ovunque tu lo ottenga. Certo, se lo conquisti a Verona entri direttamente nella Storia senza fare la fila.»

Piove a dirotto, Cernusco è malinconica come la retrocessione veronese che arrivò cinque anni dopo quell’impresa titanica. Tricella si offre di riaccompagnarmi in stazione con l’accortezza e lo sprint gentile di quando riportava l’ordine in difesa. Lo ringrazio e proseguo il viaggio di CalcioNews24. La prossima settimana spazio a Fernando De Napoli, il generoso Rambo di due scudetti napoletani e delle notti magiche di Italia ’90. Un atleta che, nonostante i trionfi in compagnia di un certo Maradona e le successive affermazioni al Milan, è rimasto un lupo irpino. Indomabile.

Rubrica a cura di Simone Sacco (per comunicare: calciototale75@gmail.com)

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