2019

Razzismo, Zoro: «In 15 anni in Italia non è cambiato nulla»

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Marco Andrè Zoro ripercorre l’episodio che lo vide vittima di razzismo nel 2005 durante un Messina-Inter

Sono passati tanti anni, precisamente 14 da quel Messina-Inter del 2005 quando Marco Andrè Zoro, difensore ivoriano, decise di prendere in mano il pallone e avviarsi verso gli spogliatoi in risposta ai cori razzisti a lui indirizzati durante il match. L’ex giocatore è tornato a parlare dal fatto sulle colonne de La Gazzetta dello Sport.

«Sono felice di come ha parlato Infantino, senza peli sulla lingua, in una occasione così importante. E lo ringrazio. Forse questa denuncia servirà finalmente a smuovere qualcosa, perché in 15 anni in Italia non è cambiato nulla, per colpa dello Stato e della Federcalcio che non hanno lottato come avrebbero dovuto contro il razzismo».

L’arbitro dovrebbe interrompere il match.

«Perché di razzismo non si deve parlare e allora si chiudono gli occhi e le orecchie. Ma più si chiudono le orecchie e gli occhi, più la gente ne parla, perché gli italiani non sono razzisti. Io ho fatto esperienza e ricordo un popolo fantastico e caloroso. Il problema sono gli esempi e l’educazione. Dal livello più alto al più basso serve intransigenza contro il razzismo. Se un ministro della Repubblica, come la Kyenge, viene definita scimmia da un collega politico, diventa più difficile combattere il razzismo negli stadi».

I club minimizzano parlando di “4 stupidi“.

«I quattro stupidi poi diventano mille. Gli insulti per provocare o disturbare l’avversario sono una cosa, il razzismo un’altra. Se per colpire un uomo, io attacco il colore della sua pelle, sono razzista e basta».

Sull’episodio del 2005.

«Il ricordo di tanta solidarietà: Adriano e i giocatori in campo, il dirigente Facchetti che chiese scusa a nome dell’Inter, i messaggi, le telefonate, i fax che mi travolsero nei giorni successivi… Ma accanto al ricordo di tanto affetto, c’è altrettanta amarezza e delusione: dopo 15 anni in Italia è rimasto tutto uguale. Il mio caso non è servito a nulla. I tifosi dovrebbero pagare per vedere uno spettacolo, se si pagano il diritto di ululare, è giusto negargli lo spettacolo. Se Stato e Federcalcio non fanno nulla, è giusto che i calciatori di colore insultati si difendano da soli, anche lasciando il campo».

Se farà vedere l’episodio ai figli.

«Ho 4 figli. Ne ho già parlato ai due più grandi: Janni, 12 anni, e Raina, 5. A scuola gli hanno chiesto perché volevo uscire dal campo. Ho spiegato. La scuola è tutto. L’educazione. Io vivo ad Abidjian e collaboro a un programma statale per l’inserimento dello sport nelle scuole della Costa d’Avorio. Organizziamo campionati di calcio, pallamano e basket che durano tutto l’anno, per tenere i bambini lontani da droga e prostituzione, ma anche per insegnare che la vita è una cosa splendida da condividere con gli altri. Si gioca insieme, si studia insieme, si mangia insieme. Così impari che chi si siede accanto a te è come te. E’ così che si combatte il razzismo».

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