2014
Preferisco avere fortuna che talento
«Chi disse: «Preferisco avere fortuna che talento» percepì l’essenza della vita. La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo. A volte in una partita la palla colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po’ di fortuna va oltre e allora si vince. Oppure no e allora si perde».
[Match Point, monologo iniziale di Chris Wilton]
Accostando la settima arte al mondo del calcio, la vita non è mai stata «una vittoria in casa per 2-0 contro i primi in classifica con la pancia di patatine fritte» secondo Nick Hornby, bensì è spesso uno Zero a Zero. Come il titolo del docu-film di Paolo Geremei, girato più di 2 anni fa e non ancora distribuito nelle sale, vincitore del Biografilm Festival 2013, e attirando anche l’attenzione dei britannici, che lo hanno presentato al Jewish Museum di Londra. E’ la storia di tre ex calciatori del settore giovanile della Roma, tutti classe 1977, (ex) compagni di Francesco Totti, considerati all’epoca dagli addetti ai lavori pronti ad esplodere da un momento all’altro sui massimi palcoscenici calcistici, ma il cui destino beffardo ha regalato loro una storia diversa, distante rispetto alle aspettative poste sul loro talento. Andrea Giulii Capponi, Daniele Rossi e Marco Caterini: sono loro i protagonisti del documentario, che raccontano la propria esperienza come monito per il futuro dei giovani calciatori. Capponi e Caterini, due portieri nel giro delle Nazionali giovanili, e Daniele Rossi, attaccante dalle belle speranze, il numero 10 (futuro) della Roma sfumato: diversi motivi ma un unico destino, lontano da quei campi di Serie A su cui tutti avrebbero scommesso circa una loro presenza. Il calcio come trasposizione della vita e viceversa, sogni sfumati che lasciano il campo alla realtà e poi farci i conti. I tre protagonisti raccontano al regista i sogni perduti, le difficoltà e i sogni infranti per via degli infortuni, insomma, i personali motivi che hanno fatto chiudere ‘la fabbrica dei sogni‘: chi per un motivo o chi per un altro, non è riuscito a coronare il proprio destino. E qui torna il discorso sul talento, ma ancor di più sulla fortuna, perché se a 16 anni un giovane Buffon è una tua riserva in Nazionale o se indossi il numero 10 del futuro capitano Totti, probabilmente, tralasciando possibili giudizi di merito, possiedi innatamente un grande talento. Altro discorso, appunto, la fortuna: se è a favore la pallina va oltre la rete e allora si vince. «Oppure no e allora si perde». Ma non nella vita, come dimostrano le testimonianze di queste tre ex promesse nel docu-film, che da una cocente cocente hanno trovato la forza per affrontare l’esistenza con nuove armi a disposizione, magari raccontando alle nuove generazioni come questa sia una storia di e per tutti.
I SKUGGAN AV SAN SIRO – Le loro tre non sono le uniche storie di talenti dispersi nel mondo del calcio, a riprova del rapporto non consequenziale tra i settori giovanili e il campionato professionistico dei cosiddetti “grandi”. Un grande talento va coltivato, allenato quotidianamente, per non disperderlo, fortuna permettendo. Perché, spiegava De Niro in Bronx, la cosa più triste «è il talento sprecato: se non fai la cosa giusta, non succede niente». Ecco, così, che l’eccessiva aspettativa su un giovane calciatore può tramutarsi in pressione ingestibile a quei livelli, sicché spesso le valvole di sfogo saranno poco ortodosse e non adatte ad un’atleta. Più di tutti, è importante la testimonianza di Andreas Bengtsson, un’esperienza totalmente diversa dai tre calciatori prima citati, per far capire ai più giovani tutto ciò che non si deve fare quando hai una chance del genere a disposizione. Bengtsson, svedese dai piedi d’oro classe ’86, arriva all’Inter nel 2004 in pompa magna, debuttando egregiamente con la Primavera, fino a lasciar perdere le tracce completamente di sè dopo pochi mesi. Cos’è accaduto? Bengtsson lo ha spiegato tre anni dopo, nel 2007, con un best-seller “In The shadows of San Siro“, dove racconta tutte le peripezie e la depressione della sua avventura a Milano. Un aneddoto? Un giorno tentò il suicidio tagliandosi le vene con un rasoio nel bagno del centro giovanile dell’Inter, con sottofondo le note di David Bowie, fino a esser salvato e rimesso in sesto. E’ successo che la dolce vita meneghina, le modelle, l’alcool, il sesso sfrenato, componenti non proprio fondamentali della vita di un’atleta professionista, abbiano influito sul futuro e le prestazioni: come quella volta in cui – racconta nel libro – i tecnici delle giovanili beccarono alcuni ragazzi a fumare spinelli: «La società decise di punire tutti (…) Da quel momento iniziò la mia depressione, avvertì la sensazione di essere in una prigione». Da lì, il viaggio di non-ritorno: la clinica psichiatrica, il ritorno in Patria, l’addio al calcio.
ALLA RICERCA DELLA GRANDE BELLEZZA – C’era una volta una Juventus Primavera fatta di Mirante, Gastaldello, Konko, Paro, Guzman. In quegli anni in molti di loro passarono al Crotone per una esperienza in Serie B con i professionisti, e tra questi c’era anche Luca Scicchitano, calciatore dalle belle speranze del settore giovanile bianconero. Un gruppo forte quella Primavera, in trionfo due volte a Viareggio. Scicchitano ricorda diversi allenamenti con la Prima squadra juventina, il rapporto di Montero con i giovani, l’amichevole di Villar Perosa tra Juventus A e Juventus B, le prime panchine in Serie A. Dopo una breve esperienza all’Avellino, Scicchitano va al Crotone: inizialmente in comproprietà, poi tutto di proprietà della società calabrese, e forse la sensazione di aver perso solo il primo treno per la Serie A. Poi, l’irreparabile: poche presenze anche per l’arrivo di Nocerino nel centrocampo crotonese, il trasferimento a Ravenna, il successivo rifiuto al Martina Franca in C1. Da lì, una nuova scelta di vita: tornare nei campetti di provincia, ripartire dal basso, vicino casa, a Rossano Calabro, in Serie D, calcare i terreni d’Eccellenza, prima col Cerea e poi col Cremissa in Promozione.
MI MANDA EDGAR – Dalle parti di Corso Galfer, comunque, hanno avuto una storia diversa nei contenuti, ma non dissimile nel risultato, con Sergio De Windt, giovane olandese consigliato alla Juventus da Edgar Davids, prelevato dalle giovanili dell’Ajax senza neanche una presenza in prima squadra. Era una Primavera diversa, che annoverava nuovi talenti come Enzo Maresca, Matteo Brighi (“il nuovo Redondo” soleva apostrofarlo il direttore Moggi). De Windt, arrivato a Torino in punta di piedi, a 17 anni fa il ritiro estivo con la prima squadra, sotto la guida di Carletto Ancelotti. Complice la solitudine, i problemi di Davids impegnato nell’affaire nadrolone, a fine stagione sarà un lungo infortunio al ginocchio a impedirgli di proseguire l’avventura. Perché, nel frattempo, è tornato Marcello Lippi sulla panchina bianconera, pronto ad inaugurare il secondo ciclo vincente con la Signora Omicidi, non proprio propenso a dare chance, in un gruppo costruito per vincere, a un giovane ragazzino ancora acerbo in fase di recupero da un infortunio. De Windt inizia una vita non proprio ortodossa al di fuori del campo, con un tenore di vita rimproveratogli anche dagli stessi dirigenti bianconeri: biglietto di ritorno, provini con alcuni club olandesi, ma nulla più. La gioia di giocare a calcio si è ormai spenta e continuerà a farlo in futuro solo a livello amatoriale, mentre il sostentamento economico gli verrà garantito da un impiego in un call-center. Lontani quindi i fasti del professionismo e i sogni, più che legittimi dopo una trafila nei settori giovanili più blasonati, come quello dei lancieri e con la Vecchia Signora. E pensare che anche Hurrà Juventus ne parlava in termini entusiastici (“Saranno famosissimi”). Anche per De Windt, la palla è rimasta da questa parte del campo.