2020
Platini: «Ho sempre detto a Diego: per cambiare le regole, bisogna entrare nell’organizzazione»
Michel Platini, ex avversario di Diego Armando Maradona, ha parlato del Pibe de Oro sulle pagine di Repubblica. Le sue parole
Michel Platini ha ricordato Diego Armando Maradona sulle pagine di Repubblica. Queste le parole dell’ex presidente del UEFA.
MARADONA – «Non siamo mai stati nemici, ma venivamo da esperienze, famiglie, paesi, passioni diverse. La nostra educazione, la nostra crescita è andata per strade che non si incrociavano. Lui veniva dall’Argentina dove il pallone è antico, ancestrale, viscerale, un modo di vivere del popolo. Prende la testa, il cuore, i polmoni. Lì il calcio è primordiale, è un graffito delle caverne, è un tatuaggio sulla pelle. Si fa vedere e sentire. Un’identità forte, un sentimento nazionale, è come la tua mamma. Io sono nato in Francia, dove la gente se ne fregava del pallone, e non credeva che quello del calciatore potesse essere un lavoro. Quand’è che mi sarei dedicato ad una cosa più seria?».
MARADONA E PLATINI – «Diego è stato eccessivo ma raramente ha sbagliato gioco. In campo è stato magico e magnifico, sul resto della sua vita non mi permetto di entrare. Molto più dei caratteri, contano le origini diverse. In Argentina il calcio è una rabbia di tutti, vive di rimandi, è un album dove trovi sempre una figura che ti appartiene. In Francia quando giocavo da ragazzo mi dicevano: se piace a te. Non ero uno di loro, ma solo uno che inseguiva il suo gioco preferito. Non c’era la dimensione collettiva che invece a Diego non è mai mancata. Non siamo fatti solo di stile, ma di quello che ci portiamo dentro. La mia generazione ha riacceso la fiamma del calcio francese che fin lì quanto a risultati era stato un disastro».
MARADONA A NAPOLI, PLATINI A TORINO – «Mai avrei vissuto come lui, con cento persone sempre addosso, a pranzo e a cena, non ce l’avrei fatta. E a lui la mia vita discreta sarebbe sembrata troppo vuota. Quando io sono arrivato a Torino la Juve era a quota 20 scudetti, quando lui è arrivato a Napoli, la squadra era a 0. La geografia dei risultati conta. Lui non solo ha vinto, ma è stato un aggregatore, è riuscito a far capire che bisognava far crescere la società, così sono arrivati Careca e Alemao».
RE DELLE PUNIZIONI – «Tecniche diverse però, lui più simile a Zico. Il suo tiro si alzava molto e poi scendeva, invece il mio aveva una traiettoria più a giro, più bassa, e cadeva a foglia morta. Noi in Francia amiamo molto les feuilles mortes».
ORGANIZZAZIONE DEL CALCIO – «Non ci hanno concesso di comandare il calcio? Si chiama invidia o gelosia. Siamo noi che giochiamo, la gente viene a vedere noi, non i Blatter o gli Infantino. I dirigenti pensano che il pallone appartenga a loro, e così ci espellono, dobbiamo solo stare in campo, e non impicciarci d’altro. Quello che ho sempre detto a Diego: per cambiare le regole, bisogna entrare nell’organizzazione, lavorare da dentro, criticare da fuori non serve a molto. Non è con le interviste che si cambia il calcio».
FUNERALI – «È stata la persona che ha amato di più il calcio, quello che ha fatto lui, non lo farà più nessuno, Pelé è stato lo Spirito Santo, in pochi lo hanno visto, le immagini di Diego invece sono negli occhi di ogni gioventù. Maradona è venuto alla mia partita d’addio, ci siano scambiati le maglie, ha giocato per tutti i 90 minuti. Ma credo che dentro di sé, nonostante la folla, si sia sentito solo per tutta la vita. Nessuno ha mai avuto abbastanza autorità per aiutarlo e magari qualche volta per rimproverarlo. In tanti hanno sfruttato la sua fama, ma è difficile stare vicini ai maghi quando smettono di inventare, tutti richiedono lo stesso numero e se ne infischiano delle tue stanchezze a fragilità».