2015

Perin: «Buffon? Forza d’umiltà»

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E poi rivela: «Dopo la paperissima su Rossi ero nervoso marcio»

Sono tre i momenti bui che hanno caratterizzato la giovane carriera di Mattia Perin ed è stato lo stesso portiere del Genoa a rivelarli ai microfoni de La Gazzetta dello Sport: «La prima volta avevo 13 anni: a Pistoia da solo, un mese di euforia da improvvisa libertà e poi il magone, “Papà, non ci voglio più stare qui”. Mi è durata solo una settimana: fossi tornato a Latina, la mia carriera sarebbe stata un’altra. La seconda all’inizio della scorsa stagione: paperissima su tiro di Giuseppe Rossi e lo scetticismo dell’ambiente diventa sfiducia. Ero nervoso marcio: non ridevo, non uscivo, chiuso in casa ad aspettare solo il momento di andarmi ad allenare. Una fatica bestiale: io non mi confido, voglio sempre risolvere tutto da solo e non faccio vedere nulla. Devo ringraziare Pellissier e una parata su di lui, quasi due mesi dopo: quel giorno mi sono detto “Ok, ora ci siamo”. E ho ricominciato a ridere. Ce ne sarebbe una terza, quando non sentii la sveglia e arrivai tardi alla rifinitura prima del mio esordio in A, ma lì il momento buio fu solo il tragitto hotel-campo, pensando “Che palle, mo’ mi dicono che non cresco mai”».

LA CRESCITA – Lunga confessione quella dell’estremo difensore rossoblù, che ha ad esempio ha parlato della sua passione per i viaggi, perché ha bisogno di esperienze che lo segnino, e della sua “fissa” per la Nigeria, dove ha trascinato i genitori dopo il Mondiale U17 del 2009. Gli piaceva studiare, anche se lo faceva più perché era l’unico strumento a disposizione per poter poi convincere la sua famiglia a farlo giocare a calcio, che gli ha permesso di costruirsi amicizie importanti: «Il tempo cementa i rapporti e nel calcio spesso stai troppo pochi anni insieme, anche se El Shaarawy e Viviani per me sono quasi fratelli. Gli altri sono tutti fuori dal calcio e alcuni adesso anche fuori dall’Italia: se non avessi giocato sarei andato a lavorare all’estero come loro, perché io li capisco quelli che se ne vanno, il nostro davvero non è più un Paese per giovani». Cosa avrebbe fatto se non fosse diventato portiere? Sognava di fare l’astronauta, ma intanto ha aiutato i suoi genitori dietro il bancone. Non si sente un santo Perin, però crede in Dio: «Non dico più le preghiere tutte le sere come mi faceva fare mia nonna e però prego, mai per me e tantomeno per il calcio: quando lo faccio chiedo qualcosa per gli altri, soprattutto per chi sta male».

IDOLI – Nel frattempo è cresciuto con gli idoli Buffon e Jordan: «Non è una frase fatta: il cervello è davvero il muscolo più potente che abbiamo e a Buffon e Michael Jordan ruberei tutto, ma soprattutto quello, la forza mentale. Gigi, beh Gigi è stato il classico sogno che diventa realtà: a parole sembra banale, non lo è più quando lo vivi. Un poster in camera o un’immagine in tv (lui ancora al Parma, una parata pazzesca su Recoba con la mano di richiamo) che diventa uomo e dopo un Pescara-Juventus 1-6 il giorno del tuo compleanno, ti dà la sua maglia e ti dice: “Hai una bella personalità, non buttarti giù”. Ora che siamo insieme in Nazionale certo che mi dà dei consigli, ma più che altro scherziamo: tanto, basta guardarlo per imparare. E capire che è l’umiltà che fa la forza».

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