2015

Paolo Rossi, viva la vida… Pablito!

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«Mi stupisco che non abbiano ancora fatto un film su Spagna ’82. Ad Hollywood una sceneggiatura del genere se la sognano…»

Attendevo questa intervista da più di trent’anni. Da un pazzesco tardo pomeriggio del luglio ’82 con le persiane abbassate e i primi colori televisivi (l’era neanderthaliana dell’attuale HD…) che mischiavano tipo tela impressionista il verde dell’erba con i cromatismi azzurri e gialli delle magliette (sudate) in campo. Volevo sapere perché quel calciatore magrolino, smunto e con il pomo d’adamo sporgente ci aveva reso tutti così felici. Sapete, veniva da un periodo difficile e aveva il numero 20 talmente grande che le sue spalle parevano svaporizzarsi.

Perché d’accordo la storica tripletta, d’accordo l’impresa imprevista (ma meritatissima) col Brasile di Zico e company, d’accordo le bandiere, il casino ed i mortaretti, ma quella in fondo era solo un’altra partita di calcio. Crescendo, poi, ho cominciato ad intuire (il football come specchio della società, l’emozione dello sport che allontana le amarezze della vita, la rivincita della partita dell’Azteca andata in scena nel 1970 ecc.) ed oggi finalmente ho le idee un po’ più chiare mentre Paolo Rossi si materializza davanti a me, in un hotel ad un passo da Milano, per l’intervista concordata con CalcioNews24.

Non è cambiato granché da quella lontana estate (il fisico sempre in forma, il capello inevitabilmente più grigio e un modo curioso di socchiudere gli occhi mentre racconta) o forse sono io che sono rimasto troppo a lungo là. All’indimenticabile Mondiale spagnolo del 1982. All’amore ai tempi di Pablito come racconta un bel libro di Luigi Garlando uscito qualche anno fa. Al mito (sì, il mito) del nostro calciatore azzurro più iconico assieme a Meazza, Riva e Zoff. Questi sarebbero i suoi Tempi Supplementari, ma in realtà è pure un bel viaggio tra passato e presente come ben illustra una recente mostra dedicata allo stesso Rossi e ricca di cimeli d’epoca, casacche originali, il Pallone d’Oro ’82 e video da pelle d’oca. Ho già scritto troppo, la parola passa subito all’hombre del partido.    

Partiamo dalla stretta attualità: la tua mostra monografica sarà un giorno anche itinerante?
«Penso proprio di sì. Il progetto è nato per iniziativa del comune di Gaiole in Chianti  (dove la mostra ‘Pablito’ è rimasta aperta dal 5 al 26 aprile scorsi, Ndr) ed io mi ci sono buttato con il solito mix di divertimento e scrupolo. Ora a Milano c’è questa bella opportunità dell’Expo, chi lo sa che non si riesca ad organizzare qualcosa anche in Lombardia. O altrove.»

Lo scorso marzo, invece, hai inaugurato la ‘Paolo Rossi Accademy’ (alias la tua scuola calcio) in quel di Perugia: un messaggio subliminale rivolto al football italiano?
«No, quella è stata semplicemente una scelta passionale senza alcun collegamento con le vicissitudini attuali del nostro calcio. In pratica ho creato questa Academy perugina per stare in mezzo ai ragazzi il più a lungo possibile, seguendo fino in fondo la mia vocazione di ‘giocatore per sempre’. Vocazione che, come si è visto, non ha mai coinciso con le ambizioni di un allenatore o di un dirigente.»

Piccoli “Pabliti” crescono?
«Speriamo! (sorride) Speriamolo sul serio. In Nazionale, d’altronde, ci mancano i grossi ricambi generazionali e l’unico calciatore su cui io puntavo tanto, Pepito Rossi (un vero esempio comportamentale, il suo), al momento è ancora in via di guarigione. Il fatto è che i giovani italiani di 18/19 anni, se bravi e motivati, devono assolutamente trovare spazio nelle nostre squadre di club; altrimenti tutto il movimento cresce piano e poco. Soprattutto a livello di maturazione

Quindi stai dalla parte di Sacchi? Sensazionalismi a parte…
«Sto totalmente con Arrigo quando dice che ci sono troppi stranieri a tarpare le ali ai nostri Under 21, ma anche Under 17 se è per questo… Mi rendo conto che le società lo facciano per convenienza economica, però è giusto dare una chance a chi è nato nella Penisola. Se no bye bye al Rossi di Vicenza, giusto per citarne uno…»

I ragazzini della tua Accademy sanno chi è esattamente quel signore con la chioma brizzolata chiamato Paolo Rossi?
«Diciamo che mi guardano con curiosità ed ammirazione. Sai, viviamo in un’epoca tecnologica e, grazie a YouTube, ora si può recuperare ogni cosa. Avercelo avuto Internet ai miei tempi quando i gol di Puskas e Di Stefano potevi solo immaginarteli con la fantasia! (ride) Non finirò mai di ringraziare mio padre Vittorio per avermi portato allo stadio di Firenze, da piccolo, a vedere le giocate incredibili di Hamrin…»

Cos’ha avuto di tanto mitologico il Mondiale dell’82 rispetto a tutti gli altri? A parte il fatto, ovviamente, che l’abbiamo vinto noi…
«È stato il primo Mundial realmente mediatico e televisto ovunque. Si giocavano gare tipo Belgio-Argentina, Brasile-URSS o Italia-Camerun e subito le immagini venivano catapultate in tutto il mondo ad una velocità pazzesca. Io me ne sono reso conto sulla mia pelle quando, tempo dopo, andai a visitare un piccolo villaggio nell’Amazzonia peruviana. C’erano quattro baracche in totale con un’antenna traballante sul tetto. E da una di queste è uscita una persona. Mi osserva per qualche istante e poi mi fa: ‘Bienvenido, Pablito!’. La mia immagine pubblica era giunta fino lì…»

Non c’era il rischio di perdersi, nel cuore degli anni ’80, di fronte a tutta questa fama così sconvolgente?
«Difatti un po’ ne ho patito. Attorno al 1983 – dopo aver vinto Mondiale, titolo di capocannoniere, Pallone d’Oro e Scarpa d’Oro – mi sono detto: ‘E adesso che combino?’. Inutile fingere: mi erano venuti a mancare gli stimoli nonostante giocassi e segnassi in una squadra fantastica. Una Juventus piena zeppa di amici che, in quel periodo, avrebbe vinto lo scudetto e tutte le competizioni europee. Quelle furono ancora delle buone annate, ma poi…»

Dopo vennero le stagioni chiaroscurali col Milan e il Verona…
«E lì ho capito che un’epoca irripetibile stava davvero finendo. Non tanto per la stanchezza fisica o gli infortunii alle ginocchia (tanti, troppi), ma perché avevo finito la benzina dell’entusiasmo. Non ne avevo più, ero saturo.»

Recuperiamolo subito quell’entusiasmo. E ributtiamoci in quel Mondiale spagnolo ad alto tasso di emotività.
«Vuoi sapere la verità? Mi stupisco che a nessuno sia mai venuto in mente di farci un film su Spagna ’82. Quella fu una sceneggiatura assolutamente perfetta e, se chiamassi ora dieci autori hollywoodiani, per me non riuscirebbero a scrivere di meglio… Era già tutto racchiuso in quell’estate: il ritiro di Alassio, le speranze disattese di Vigo, le polemiche disturbanti, il silenzio-stampa deciso in cinque minuti dopo aver preso il caffè… E poi la coerenza di Enzo Bearzot, lo snodo cruciale di Barcellona, Italia-Argentina, Italia-Brasile, la mia resurrezione imprevista, il trionfo di Madrid, il pranzo del giorno dopo al Quirinale con la Coppa FIFA in mezzo alla tavola. L’Italia che usciva finalmente da quel buco che furono gli anni ’70…»

Gli anni ’70 finirono con due stagioni di ritardo. Il 5 luglio 1982 in un piccolo stadio catalano…
«Dopo la partita del Sarrià contro il Brasile mi sono sentito realmente invincibile e ho cominciato a dormire meglio. Il giorno dopo mi svegliavo ed era ancora lì: quel senso di grandezza, mio e di tutta la squadra. Ma ho penato tantissimo per arrivarci: giocare una partita vera, dopo due anni di stop, fu un dramma. Ok, la testa c’era ma lo scatto non veniva di conseguenza. Intuivo il gol, ma mi mancava quel click tra cervello e muscoli. Però Enzo Bearzot – che era tutto fuorché un folle – mi infondeva sicurezza col suo coraggio mostruoso. Lui lo sapeva che, prima o poi, sarebbe successo. E intanto tutta Italia lo voleva linciare…»

E poi c’era l’arma segreta…
«L’arma segreta? (sorride)»

Sì, la musicassetta di ‘Sotto la Pioggia’ di Antonello Venditti.
«Giusto! (Pablito comincia a cantare ed è pure bello intonato, NdR) I carri armati a fari spenti nella notte/sotto la pioggia… Guarda, quel nastro Antonio Cabrini ed io l’abbiamo letteralmente consumato, l’avremo sentito centinaia di volte in albergo prima e dopo le partite decisive. Eh sì, devo ringraziare Venditti per aver involontariamente scritto la canzone-simbolo di quel Mondiale.»

Dove si trova la tripletta al Brasile, Pablito? Te la sogni ancora qualche notte?
«Sta là, confinata in quell’afoso 5 luglio 1982. A cominciare dal primo gol, quello segnato di testa su cross al bacio di Cabrini, che ho sempre considerato la rete più importante di tutta la mia carriera. Il secondo (l’anticipo su Leo Junior con relativo siluro di destro a far vibrare la rete, NdR) lo segnai in pura trance agonistica mentre il terzo, quando eravamo ancora sul 2-2, l’ho semplicemente ‘visto’…»

Scusa?
«Sì, l’ho visto: quel gol mi si è materializzato davanti tipo preveggenza pochi minuti prima di buttarlo dentro. E poi arrivò pure il 4-2 regolarissimo di Giancarlo  Antognoni solo che l’arbitro s’inventò qualcosa e l’annullò. Giusto per farci soffrire fino al novantesimo.»

Meno male che ti sei sbloccato dalla Seleção in poi. Così è stato tutto molto più epico, no?
«Quello in effetti fu il vero problema di Argentina ’78, il mondiale precedente ed un rimpianto che non mi sono mai levato dalla testa. Partimmo a mille: io segnai con Francia, Ungheria, Austria e feci faville sia con i padroni di casa (ricordate il triangolo Bettega-Rossi-Bettega? NdR) che con i tedeschi. Difatti arrivammo alla sfida decisiva con l’Olanda già fin troppo appagati tant’è che quella partita mi è sempre rimasta lì… (sospira) Nel primo tempo avremmo potuto condurre per 3-0 solo che non ci abbiamo creduto abbastanza. Fu un torneo vinto per metà e sicuramente non nei momenti decisivi.»

La tua vicenda “mundial” si chiuderà poi, otto anni più tardi, a Messico ’86. Una manifestazione malinconica, brutta e soprattutto non giocata…
«Ero andato là per fare gruppo e basta, un po’ come accadde a Giacinto Facchetti nel 1978. Bearzot me lo disse ancor prima di salire sull’aereo: ‘Ti porto, ma non giocherai un solo minuto. Lo faccio per te: devi lasciare questo palcoscenico con una bella immagine ed evitare a tutti i costi le brutte figure’. In Messico era davvero finito un ciclo azzurro per molti di noi (Conti, Tardelli, Scirea, Collovati, io ecc.) e l’atmosfera era parecchio ovattata. Sai, quando vinci una coppa del mondo, il bivio è sempre quello: o stravolgi tutto oppure è molto difficile, se non impossibile, ripetersi.»

Ci “parli” ogni tanto col Vecio?
«Ci penso di frequente e mi mancano sia la sua umanità che le sue lezioni di vita. Bearzot era un jazzofilo d’altri tempi, con i suoi valori forti. Uno che non ci pensava un attimo ad allontanare i ‘disturbatori’ dalla sua Nazionale. Però, una volta dentro, diventavi automaticamente suo ‘figlio’ e grazie alla sua testardaggine positiva il Vecio ti avrebbe portato ovunque. Anche a vincere una coppa del mondo…»

Cesare Prandelli è stato molto “bearzottiano” per un certo periodo di tempo…
«Sì, ma prima di Brasile 2014 ha perso la rotta del suo lavoro dando troppo ascolto alla stampa che voleva questo o quello… Mi spiace parlare così perché Cesare è un amico vero, ma il gruppo resta sacro in questi casi. Non si può andare ad un Mondiale con le idee confuse. Così come non è consigliabile cambiare la formazione ad ogni accenno di polemica mediatica.»

È quasi un’ora che stiamo dialogando. Mi sa che si è fatto tardi.
«Lasciami solo ricordare tutte quelle persone che hanno condiviso un sogno assieme a me nel 1982 ed ora non ci sono più: Enzo Bearzot, ovviamente, ma anche il povero Gai (Scirea, NdR), Artemio Franchi, il professor Leonardo Vecchiet, il nostro segretario/addetto stampa Guido Vantaggiato, il massaggiatore Sandro ‘Sandrone’ Selvi. Li porto tutti nel mio cuore.»

Più un certo Sandro Pertini…
«Pertini, certo! Un vero esempio di italiano per bene. Uno che non ha mai portato la Politica in Spagna e che non ha mai voluto toccare la Coppa FIFA nonostante i fotografi lo implorassero per un solo, singolo scatto. ‘No, la coppa è degli atleti – diceva con quel suo tono perentorio – e qua io sono solo il primo dei tifosi.’. Ma dove lo trovi oggi un altro così?»

Ma è vero che se ne intendeva di calcio?
«Scherzi? Prima della finalissima di Madrid contro la Germania Ovest venne da me a dirmi: ‘Rossi, quei tedeschi sono duri come il ferro… Li deve saltare! Ha capito? Li salti, mi raccomando!’. E intanto mi dava dei colpetti sul petto. Una spontaneità sconvolgente. Io lo guardavo e pensavo: ‘Questo mi parla come il mio babbo al bar, ma in realtà è il Presidente della Repubblica‘…»

Guarda qui il video di CalcioNews24 dedicato alla mostra ‘Pablito’.

Rubrica a cura di Simone Sacco – per comunicare: calciototale75@gmail.com

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