2016

Otto a tre. Il Monaco che non vinse nulla

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La storia di una partita, e di una stagione, che promettevano bene. Il fallimento più bello di sempre

La storia la scrivono i vincitori, su questo siamo tutti d’accordo. La retorica della vittoria però a volte risulta patetica, troppi sorrisi o frasi di circostanza, troppa gioia meritata o immeritata che sia. Non c’è dubbio che a livello di sentimenti sia la sconfitta a coprire un arco più ampio di sensazioni: si va dalla tristezza per essere stati vicini a un traguardo mai raggiunto alla consapevolezza di aver vissuto, nella maggior parte dei casi, qualcosa di irripetibile, ma quel qualcosa si è infranto proprio nel momento decisivo. E allora anche perdere diventa spettacolare, proprio nel senso di straordinario. C’è chi riesce a farlo in bello stile, chi senza lottare, chi pur non essendone degno: perdere rimane un’arte, saper perdere è tutta un’altra storia invece. Spesso però in soccorso degli sconfitti intervengono le sfumature del linguaggio perché si può perdere, ma è meglio non vincere. Quella parola – perdere – sa di maledizione, di onta da togliersi di dosso il prima possibile, ergo meglio utilizzare una litote qualunque per nascondere un risultato nefasto. Perdere tutto poi suona diverso da non vincere nulla, perché nel secondo caso si deresponsabilizza, è come se non si volessero attribuire alla squadra in questione le colpe di una sconfitta in una singola partita o nell’arco di una competizione. Il tutto diventa difficile quando la suddetta squadra riesce davvero a fallire su più fronti, come è successo in molti casi nell’arco di quasi duecento anni di pallone. Un esempio arriva dalla Francia e riporta indietro alla stagione di grazia 2003-04. In realtà non siamo propriamente in Francia ma nel Principato di Monaco, il protagonista è un club con le maglie biancorosse divise per obliquo, una casacca che si è distinta proprio per questa eccezione. Il Monaco, versione 2003-04, perse tutto: o meglio, non vinse nulla. Champions League, Coupe de La Ligue, Coupe de France, Ligue One. Eppure ci fu una partita in cui sembrava che uno degli stati più piccoli d’Europa potesse balzarne sul tetto, fiero e maestoso.

OTTO A TRE – Il 5 novembre del 2003 il Monaco è inaspettatamente in lotta per il titolo in Ligue One, dopo dodici giornate ha perso solo una volta con il Lione detentore del trofeo. La settimana precedente è incappato nella prima vera sconfitta della sua stagione, quella con il Marsiglia al Velodrome in Coupe de La Ligue: in quattro minuti Fernandao e Drogba affossano i biancorossi che dicono addio alla competizione. La vittoria col Le Mans in rimonta pochi giorni dopo riscatta parzialmente l’amarezza, poi si gioca la Champions League. Il girone per il Monaco non è facile, l’urna ha designato AEK, PSV e Deportivo assieme all’ASM. Il Monaco è a quota sei punti, due vittorie e una sconfitta col Deportivo, che deve giocare il ritorno allo Stade Louis II – universalmente riconosciuto come uno dei pochi stadi su un palazzo, anche se è un clamoroso falso storico. Didier Deschamps ha dato un gioco arioso al suo Monaco, è riuscito a rendere spumeggiante un attacco formato da giocatori che hanno sempre segnato poco – Dado Prso è un esempio – oppure in fase calante – vedi Fernando Morientes. Inizialmente i monegaschi si schierano con un 4-3-3, ma possono contare sullo spirito di sacrificio delle due ali, generalmente Ludovic Giuly e Jerome Rothen, le quali si spingono dietro la linea dei centrocampisti in fase di ripiegamento. Ha giocato in Italia monsieur Deschamps, sa che è bene saper attaccare ma è molto meglio sapersi difendere. Contro il Deportivo, il 5 novembre del 2003, non è disponibile Morientes e quindi nella distinta ufficiale appare il nome di Prso. Roma; Givet, Squillaci, Rodriguez, Evra; Cissé, Bernardi, Plasil; Rothen, Prso, Giuly da una parte, dall’altra Molina; Pablo, Andrade, Naybet, Romero; Scaloni, Mauro Silva, Sergio, Amavisca; Valeron, Tristan. La storia la scrivono i vincitori, questo è vero, ma i giocatori che scendono in campo per Monaco – Deportivo, quarta giornata del Gruppo C di Champions League il 5 novembre 2003 mettono il loro nome in calce a uno dei trofei più importanti di sempre.

LA PARTITA – In quanto a maglie il Deportivo decide di scendere in campo con una divisa arancione e blu con croce bianca in mezzo, scelta cromatica discutibile quanto l’atteggiamento dei galiziani, favoriti alla vigilia e autentica mina vagante nell’Europa del tempo. Il Monaco parte forte, gioca in modo sontuoso e alle volte un po’ barocco ma al secondo minuto è già avanti. Su un lancio da destra di Bernardi Manuel Pablo sbaglia l’intervento e Rothen si infila come una lama, arpiona col sinistro e, con Molina uscito al limite dell’area, trova il lob per il gol dell’uno a zero. Altri nove minuti e siamo a due, poco dopo una bella parata di Roma su Sergio: ancora Bernardi fa il Pirlo con dieci anni di vantaggio, protegge palla a centrocampo e sfida la difesa altissima e colorata del La Coruña, lancio per Giuly che, solo soletto, si beve Molina e raddoppia. La strada è in discesa per il Monaco, ma c’è un’aria strana, ogni azione dà l’impressione che possa essere un gol. Dado Prso il 5 novembre 2003 compie 29 anni e, prodigio della cabala, al ventinovesimo minuto incorna un cross scolastico da corner di Rothen, tre a zero. Il neo-29enne si ripete poco più tardi con un’altra incornata su torre di Givet. Siamo quattro a zero, la linea difensiva disegnata da Javier Irureta si muove più di quella disegnata da Bruno Bozzetto, ogni pallone che spiove in area è una catastrofe annunciata. Il Depor però dimostra un po’ di orgoglio sul finire della prima frazione di gioco e tra il 39′ e il 45′ si porta sul 4-2: prima Tristan mostra al pubblico la specialità della casa – stop spalle alla porta e girata di sinistro – e poi è Scaloni a bucare Evra su una respinta di Roma e ad accorciare. Quando però il primo tempo sembra finito, Prso spegne un’altra candelina sulla sua torta di compleanno e a porta vuota mette il 5-2. La difesa del Deportivo è un remake di un film di Ruggero Deodato. Dai Depor, nel secondo tempo può solo andar meglio. Irureta non fa nemmeno in tempo a pensarlo che al cinquantesimo è sotto addirittura sette a due. Fuori Molina e dentro Munua ma il nuovo portiere non cambia nulla, anzi, esce male su Giuly e regala palla a Plasil per un appoggio di piatto da trenta metri. Prso poi decide di entrare nell’Olimpo delle quaterne in Champions League e di forza anticipa Naybet sull’ennesima sgroppata vincente di Naybet, è poker per lui e pazienza se anni avanti Messi e Luiz Adriano gli toglieranno la voce “più gol segnati in una singola partita” sulle enciclopedie web. Non è finita perché Tristan è l’unico a non aver preso la gara del Louis II come una gita sulle coste francesi, l’andaluso si beve Squillaci e Rodriguez e mette in gol l’ennesimo pallonetto della serata. Edouard Cissé, fin lì il peggiore del Monaco, rende il tutto più rotondo pochi secondi più tardi quando parte da centrocampo e salta i birilli multicolore galiziani prima di depositare in gol l’8-3. Finisce così, e nei venti minuti finali purtroppo non succede nulla, il tabellone di Monaco – La Corogne non cambia più. È la partita con più gol nella storia della Champions League.

QUELLO CHE ACCADE DOPO – Proprio dopo quell’8-3, così curvilineo a scriverlo e così allitterante, il Monaco capisce di avere delle potenzialità. In campionato inizia un filotto di vittorie e risultati utili che porta il Monaco primo in classifica fino in primavera, quando anche in Coupe de France le cose si metteranno male. L’ossessione per la vittoria è forte nei giovani padawan monegaschi, che avvertono sgretolare sotto i piedi piano piano il terreno costruito per alzare un trofeo a fine anno. Il 6 aprile 2004 il Monaco batte tre a uno il Real Madrid al Louis II e, complice il 4-2 subito al Bernabeu, elimina clamorosamente – e con un taconazo del sottovalutatissimo Giuly – una delle squadre più quotate d’Europa. In semifinale arriva il Chelsea e va di pari passo con una minicrisi di risultati in Ligue One: il primo posto è messo ampiamente in discussione dal solito Lione, sono troppi cinque pareggi in otto partite fra febbraio e marzo, l’OL rimonta e anche il PSG si fa sotto. Il Monaco, dominatore in inverno, ha spostato lo sguardo verso le semifinali di Champions League più modeste che la storia recente ricordi. Da una parte Porto contro Deportivo – già, quel Deportivo la cui difesa scandalosa ne aveva presi otto in novembre – e dall’altra Chelsea e Monaco, quando ancora i plenipotenziari russi e i superprocuratori portoghesi non si divertivano a infangare la palla. Altro tre a uno monegasco in casa e due a due in rimonta a Londra: Monaco in finale, Ranieri dice addio ai Blues per via del nuovo patron un po’ esigente. Il 26 maggio 2004 l’allora Arena Auf Schalke di Gelsenkirchen fa da teatro alla voglia di rivincita del Monaco, che da due settimane almeno ha detto addio alle speranze di vincere la Ligue One. Il Lione per il terzo anno consecutivo porta a casa il titolo. Là dove le chiese sono adornate dal gelso e nello stadio meno nobile in cui la coppa dalle grandi orecchie abbia mai accolto due finaliste, il Monaco trova il Porto, ma evidentemente non è serata. Prima il dimenticato Carlos Alberto, poi il sopraccigliato Deco e infine il russo con trascorsi romanisti Alenichev regalano la coppa ai portoghesi. Tre a zero, passivo pesante per Deschamps e compagni. E mentre il Porto è lì che festeggia, il suo allenatore José Mourinho si toglie la medaglia e fugge senza nemmeno esultare. Cosa darebbero quelli del Monaco per poterlo fare, loro che ci erano andati vicini e – così vicini – non torneranno mai più. Dovevano vincere qualcosa, persero tutto. O non vinsero nulla, questione di sfumature.

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