2015
Massimo Palanca, el senhor golasso olìmpico
«Segnare direttamente su calcio d’angolo – col portiere piazzato – va contro le leggi della fisica. Ma io ero furbo…»
I sudamericani, sempre loro, hanno una maniera bellissima e poetica per descrivere le reti segnate (miracolosamente?) dalla bandierina del corner, senza alcun intervento esterno. Li chiamano gol olìmpici perché il primo giocatore capace di compiere una simile prodezza fu Cesàreo Onzari, attaccante argentino che il 2 ottobre del 1924 marcò contro l’Uruguay (all’epoca campione olimpico in carica avendo vinto la medaglia d’oro a Parigi; si ripeterà anche ad Amsterdam 1928) una rete che è superfluo definire “storica” ed imprescindibile per le sorti future del Giuoco.
Alcuni studiosi del british football sostengono che il buon Onzari non fu esattamente il primo (un certo Billy Alston segnò un gol uguale pochi mesi prima, il 21 agosto 1924, in seconda divisione scozzese), però il termine fortunatamente è passato ai posteri (per la cronaca l’Argentina, quella volta, perse 2-1). Ed è arrivato dritto fino agli anni ’70 nostrani quando una guizzante ala sinistra baffuta ed originaria delle Marche fece di tale magia un’arte ripetuta ed ammirata. Saranno infatti ben 13 i gol olìmpici siglati da Massimo Palanca nel corso di una bella carriera che, dopo essere diventato Rey in quel di Catanzaro, lo ha visto giocare anche per Camerino, Frosinone, Napoli, Como e Foligno.
Attualmente Massimè – come lo chiamano/idolatrano tuttora nella città calabra tra i due mari – è un nonno felice di due nipotine e si gode la sesta decade della sua esistenza. Gestisce un negozio di abbigliamento sportivo nella stessa Camerino, fa l’osservatore scrupoloso, risponde gioviale alla chiamata di CalcioNews24 e rivive periodicamente il mito riflesso di Onzari. Perché, quando nasci col piede fatato, è difficile se non impossibile che milioni di italiani si scordino di te. Anche a distanza di così tanti anni. La parola al diretto interessato.
La storia ci racconta che smettesti col calcio nel 1990, a 37 anni compiuti e al termine di una stagione disastrosa del Catanzaro che difatti retrocedette in C1. Però la tua fu una decisione che avresti ritrattato volentieri…
«Fisicamente mi sentivo ancora forte e un altro paio di campionati in maglia giallorossa li avrei fatti volentieri. Anche per riparare l’onta di un finale così malinconico e sciagurato… Solo che di testa, in quel ’89/’90, aveva già patito fin troppo: l’ingloriosa retrocessione, i troppi cambi di allenatore, i ritiri anticipati e massacranti, le false promesse della dirigenza. Ne avevo abbastanza.»
Oltre a Palanca, il primo Catanzaro dei miracoli (quello di fine anni ’70) sfoggiava altri due pezzi da novanta: Claudio Ranieri e Massimo Mauro, ovvero due futuri VIP del pallone, chi in ambito tecnico e chi in quello televisivo griffato Sky. Tu invece hai deciso di aprire un negozio e condurre una vita normale. Perché?
«Perché non tutti veniamo al mondo con lo stesso carattere o uguali obbiettivi. Quelle di Claudio e Massimo sono state scelte di estrema passione, mentre io mi sarei accontentato di allenare in ambito dilettantistico. Per un po’ l’ho pure fatto, ma poi ho lasciato perdere.»
Come mai?
«Per una questione di mentalità: volevo portare (almeno in minima parte) un po’ di professionalità in quel mondo, ma non ho trovato orecchie pronte ad ascoltarmi. E muscoli desiderosi di sottoporsi a certi sforzi. Così oggi faccio il commerciante e l’allenatore della Rappresentativa Regionale delle Marche. E anche lì, ogni tanto, mi partono i cinque minuti…»
I motivi?
«Gli esempi negativi del calcio dei grandi replicati dai più giovani. A volte vedo arrivare dei ragazzini di 14 anni col calzettone alzato fin oltre il ginocchio, gli scaldamuscoli trendy, l’orecchino e le cuffione per sentire la musica e mi chiedo semplicemente il perché… La risposta? I modelli puliti oggi scarseggiano e il football attuale non può più permettersi certe forme di maleducazione mediatica.»
Da dove ripartire?
«Dai giocatori per bene, tipo Giuseppe Rossi, un atleta vero in cui io – tecnicamente – mi rivedo molto. Anzi, speriamo torni presto integro ed ancora più forte di prima. Forza Pepito!»
Proviamo a fare un paragone un po’ impegnativo: Totti sta alla Roma come Palanca stava al Catanzaro o Javier Zanetti all’Inter. Ovvero il prototipo di giocatore che rende alla grande solo in un determinato ambiente dove sa di essere amato, coccolato e capito. Ti ci ritrovi?
«Non conosco ovviamente le ragioni di Totti o di Zanetti, però ho capito cosa intendi. Guarda, io a Catanzaro vivevo da re e – se devo essere sincero – mi sono sentito ancora più venerato, la stagione in cui tornai, nell’86/’87, che durante la mia prima esperienza con quei colori. Entrai in campo, segnai subito, vincemmo il campionato di C1 e l’anno dopo sfiorammo la A di un solo punto. Furono tempi incredibili, indimenticabili.»
Nell’estate del 1981, però, mollasti la Calabria per accettare l’offerta del Napoli…
«Avevo già 28 anni, ero ambizioso, sentivo dentro di me che dovevo andare e così firmai in fretta. Il Catanzaro ci guadagnò una bella somma, mentre nel mio caso l’avventura sotto al Vesuvio non funzionò. L’anno dopo andai in prestito al Como che se ci pensi bene – per me, idolo del Sud – era proprio una destinazione singolare. Ma in panchina sedeva un certo Tarcisio Burgnich – che avevo già avuto come mister a Catanzaro – e così, per stima, mi fidai. Anche se…»
Anche se…?
«Io sarei voluto andare all’Ascoli dove avrei ritrovato Carlo Mazzone, l’allenatore dei tempi d’oro del Catanzaro. Solo che il presidente Costantino Rozzi ne fece una questione di natura economica, voleva risparmiare a tutti i costi e l’accordo saltò in extremis. Pazienza, a Como sfiorammo la serie A, non posso lamentarmi.»
Venendo alla tua peculiarità tecnica più conosciuta (alias il gol dalla bandierina del calcio d’angolo), hai sempre minimizzato quel gesto sorprendente: davi il merito a Claudio Ranieri che – piazzandosi sul primo palo – distraeva il portiere o al vento insidioso di Catanzaro. Scusa, ma il tuo mi sembra un attestato di assoluta modestia…
«Mah, mettiamola così: per le leggi della fisica è praticamente impossibile segnare dal corner se il portiere sta ben piazzato tra i pali. Senza distrazioni esterne (il vento, un tuo compagno che gli cela la traettoria della palla ecc.), ogni estremo difensore parerebbe al 100%, te lo assicuro. Quindi ben vengano gli ‘aiutini’ conditi da un sacrosanto allenamento. Perché – su questo non transigo – non ho mai lasciato nulla al caso: se c’era da fare una mezz’ora in più al campo per affinare il tiro, io ci restavo senza problemi.»
Serve solo potenza per segnare i gol “olìmpici”?
«Quella serve, ma va costantemente condita da una buona dose di scaltrezza e furbizia. Uno dei più grandi rammarici che ho verso il football moderno è che segnature dalla bandierina se ne vedono sempre di meno… (sospira)»
Beh, se è per questo tu calzavi il 37 mentre oggi Ibrahimovic ha dei piedi che paiono da giocatore di basket…
«Questo si chiama il bello del gioco. Perché nel calcio c’è spazio per tutti e gli estremi, spesso, coincidono.»
Il calcio è bello e, allo stesso tempo, parecchio emotivo…
«Non dirlo a me che una volta fui preso da una crisi di nervi dopo aver sbagliato un calcio di rigore! (ridacchia) Ricordo ancora la data: 14 febbraio, giorno di San Valentino del 1988. Catanzaro contro Triestina: partita inchiodata sullo 0-0. Arriviamo ai minuti di recupero e l’arbitro Bailo di Novi Ligure, oltre a fischiarci un rigore a favore, espelle pure il portiere alabardato. Va in porta un giocatore triestino, che indossa in fretta e furia la maglia numero 1, ed io penso: ‘Ok, ormai è fatta’. Solo che colpisco male e la palla va a sbattere sul palo. Rigore troppo perfetto? Macché, la perfezione dagli 11 metri esiste solo quando fai muovere la rete! Anche se fai un tiraccio sbilenco che passa sotto la pancia del portiere.»
Come terminò la scena?
«Mi portarono fuori dal campo in lacrime, non capivo più nulla, volevo solo sotterrarmi. Mentre il pubblico, sportivissimo e partecipe, applaudiva tutto attorno.»
Roba da richiedere la residenza perenne a Catanzaro…
«Ho ancora una casetta da quelle parti e, quando posso, ci torno sempre stra-volentieri. Solo che sai come va la vita quotidiana, no? La famiglia, il lavoro che non ti dà mai pause… Però una cosa te la voglio aggiungere: i miei migliori amici sono rimasti tutti là, nella mia amata Catanzaro.»
Rubrica a cura di Simone Sacco (per comunicare: calciototale75@gmail.com)