2015
Mario Ielpo, l’avvocato del Diavolo
«Il calcio non è per sempre. Dopo una certa età devi trovare qualcosa di più sicuro…»
Lo studio è ampio ed elegante, posizionato nel centro di Milano. Mario Ielpo, una vaghissima somiglianza con Javier Zanetti (e va detto a favore di Ielpo visto che l’ex portiere originario di Roma ha dieci anni in più di Pupi…), mi accoglie stringendomi la mano e sfoggiando un impeccabile completo giacca-pantalone distante anni luce da quei maglioni imbottiti che adoperava in passato per portare a casa lo stipendio. E difendere le reti di Lazio, Siena, Cagliari (una storica qualificazione alla Coppa UEFA sotto Carletto Mazzone), Milan (2 scudetti, una Champions League più varie coppe) e Genoa. The original SuperMario, inoltre, è rilassato quanto disincantato, dote essenziale per decifrare al meglio la sua precedente professione. Non parla legalese, per fortuna, e va sempre dritto al punto della questione. Come se avesse intuito che, da dietro la metaforica barriera, stia sempre per partire un tiro insidioso sotto forma di domanda (spinosa) targata CalcioNews24. Ma Ielpo c’è, non smanaccia mai, blocca sicuro a terra. Diciamo pure che l’intuito è rimasto quello dei giorni belli. La parola alla difesa, dunque.
Certi ex calciatori sembrano sostenere che il calcio sia un tutt’uno con l’esistenza, un legame indissolubile tra la vita e il pallone. Nel tuo caso basta sostituire la parola “calcio” con “professione forense” e il risultato non cambia granché…
«Sì, lo sport è una gran bella cosa ma – secondo me – non puoi puntare tutta la tua vita su di esso. Il calcio, in particolare, lo fai per passare il tempo, per stare in forma, per guadagnare un po’ di soldi (i soldi della mia epoca, ovviamente, non quelli attuali di Cristiano Ronaldo o Ibrahimovic), ma le lunghe carriere appartengono ad altri ambiti. Prendi mio padre, ad esempio: lui è del 1931, fa l’avvocato a Roma da sempre, recentemente gli hanno dato una medaglia per i sessanta anni di carriera ma di appendere la toga al chiodo manco gli passa per la testa! (ride)»
Beh, alla voce “lunghe carriere” molti sostengono che, dopo aver calcato i campi, si può sempre provare a fare l’allenatore.
«L’allenatore di successo, magari. Come il mio pigmalione Fabio Capello. Gli altri – parlo di quelli che allenano nelle serie inferiori – non so se siano così contenti del loro status lavorativo: fanno una vita nomade, li pagano poco, sono sempre coinvolti in mille casini tra giocatori, stampa e società…»
Si chiama passione, no?
«Lo capisco perfettamente. Anche perché insegnare calcio ai giovani, in teoria, resta la cosa più bella del mondo. In pratica invece… (sospira)»
Torniamo un attimo ai tempi dell’Università: eri uno studente secchione oppure certe volte hai sorriso anche ad un bel 18?
«Mmh, diciamo che la mia media-esami veleggiava sul 24/27, un buon punto di partenza per un futuro avvocato anche se questo resta un mestiere dove la competenza te la devi guadagnare, giorno dopo giorno, lavorando sodo in tribunale. Soprattutto se prima hai fatto il calciatore e magari ai colleghi parte di rito la battutina fastidiosa. In parole povere, me la cavavo e me la facevo sotto solo per le interrogazioni più dure.»
Come compattavi calcio e studio? Ti portavi i codici giuridici in ritiro?
«Studiavo a casa, nel quartiere del Foro Italico, e sono stato fortunato a poter dare la maggior parte degli esami quando giocavo tra la Primavera della Lazio, il Siena in C2 e le 20 partite che disputai nei due successivi campionati con gli Aquilotti. Però, dammi retta, certe notti mi sogno ancora i voli aerei sulla tratta Cagliari-Roma durante l’anno della tesi! (ridacchia)»
Quando hai smesso – nella tarda primavera del 1998 sfilandoti per l’ultima volta i guantoni del Genoa – sei stato felice di cominciare immediatamente una nuova professione?
«In parte sì, in parte no. Cominciamo dal lato positivo: ero iscritto all’Ordine degli Avvocati dal 1994 e quindi, fortunatamente, ho potuto subito esercitare il mio ruolo. Allo stesso tempo, però, il mio fisico era ancora totalmente integro e sarei potuto andare avanti altri dieci anni tra pali e traversa. Solo che gli ingaggi che mi proposero allora prevedevano l’andare a zonzo per l’Italia. E non erano adeguati allo sbattimento di far trasferire la mia famiglia per l’ennesima volta. In pratica scelsi di indossare la toga e me ne feci subito una ragione.»
Almeno al Genoa, però, giocavi con regolarità (55 presenze in due anni). Al Milan, invece, facesti tanta panca nonostante la stima sincera dello stesso Capello…
«Vuoi sapere la verità? Fu dura indossare la maglia numero 12. D’altronde avevo 30 anni, l’età ideale per un portiere, arrivavo da sei stagioni indimenticabili al Cagliari dove passammo dalla C1 alla qualificazione in Coppa UEFA, avevo fatto la mia bella gavetta e mi sentivo forte ed agguerrito. Una belva tra i pali.»
Ma trovasti sulla tua strada un certo Sebastiano Rossi…
«Che per la cronaca, gli va dato atto, giocò benissimo quel primo campionato ’93/’94. Nei due successivi, invece, potevo tranquillamente giocarmi il posto da titolare con lui, ma ormai è acqua passata. E poi ribadisco che Capello mi fece sentire importante ogni volta che gli si presentava l’occasione: con lui giocai regolarmente la Coppa UEFA, la Coppa Italia, parecchie amichevoli di lusso, qualche volta in campionato ecc.»
Seguivi la spinosa vicenda di Tangentopoli durante i tuoi anni milanesi? In fondo il periodo era esattamente quello…
«No, facevo vita da atleta, sfogliavo la stampa sportiva e all’epoca non ero ancora così addentro agli interessi quotidiani di un avvocato. Anche per quel che riguarda i tanto decantati legal-thriller di John Grisham: mai letti. Preferisco di gran lunga i romanzi storici di Giampaolo Pansa anche se, esaminando carte tutto il giorno, la sera è raro che prenda in mano un libro.»
Però un’idea legale su Calciopoli te la sarai fatta…
«Ci mancherebbe altro! (sorride) Al principio era giustizialista come tutti gli italiani e, dai miei interventi sulle TV private, credo che si sia capito eccome visto che in quei giorni avrei spedito la Juventus direttamente in serie Z…»
E poi…?
«Successivamente mi sono ricreduto ascoltando tutte le parti in causa, le intercettazioni di questo e di quello, arrivando a credere che si sia trattato di un grande malaffare all’italiana. Un malaffare influenzato dal fatto che tutte le grandi squadre, in definitiva, agivano così. Facendo pressioni su pressioni alla categoria arbitrale.»
Sarebbe bastato tornare al sorteggio integrale e tutti (forse) se ne sarebbero fatti una ragione…
«La fai facile te… (sorride) Ricordati sempre che se non viene visto un rigore in Cagliari-Chievo se ne parla giusto per un paio di giorni tra la Sardegna e Verona e la cosa finisce immediatamente lì. Se tale rigore non viene assegnato in Milan-Cagliari si rischia di falsare il campionato. Ed ecco allora che, puntualissima, scoppia la tempesta mediatica in tutta Italia…»
A proposito, hai mai difeso un calciatore? Parlo di sede civile, ovviamente.
«Un calciatore no, ma un arbitro sì! Bizzarra la vita, vero? (ride)»
Congedato il simpatico e diretto Mario Ielpo, vi diamo appuntamento a martedì prossimo con il nostro nuovo protagonista di Tempi Supplementari. Resteremo sempre ben piazzati sulla linea di porta in quanto ne sentiremo di cotte e di crude direttamente dalla voce di Claudio Garella. Il mitico Garellik che continua ad influenzare (oggi più di ieri) tutti quei portieri alla Neuer, alla Courtois o alla de Gea per cui una parata di piede non assomiglia affato ad una bestemmia, ma ad una efficace ripartenza applaudita dal Mister di turno…
Rubrica a cura di Simone Sacco (per comunicare: calciototale75@gmail.com)