2013

Mañana en la batalla piensa en mí

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Figo, Jeffren e Zidane: tre storie diverse per tre Clasicos completamente differenti

CLASICO – La sfida più bella del mondo non esiste, mettetevelo in testa. Ogni partita, che sia stracittadina o internazionale, ha il suo fascino e la sua storia e non può pretendere di porsi al di sopra degli altri match. L’Old Firm è qualcosa di entusiasmante, basta vedere un Boca – River per poter dire di aver vissuto appieno, il Fla – Flu è letteratura; ma c’è una partita che, vuoi per marketing, vuoi per pedigree, vuoi perché la giocano alcuni tra i giocatori miglior al mondo, risulta sempre più attesa e appassionante delle altre: El Clasico. La Spagna storicamente è divisa tra centro – Madrid, capitale e simbolo del potere – e periferia – i Paesi Baschi ma anche la Catalogna, con Barcellona centro turistico e culturale di ultima generazione – quindi non sorprende affatto che l’intera nazione si fermi quando al weekend gioca Barcellona – Real Madrid. Perché el Clasico è più tra una partita, come avrete avuto modo di capire nel corso della vostra vita da calciofili, è uno scontro tra ideologie, tra modi di vivere e di pensare che stanno diametralmente agli opposti. Il Real odia il Barca e il Barca odia il Real e qui non vale e non varrà mai l’assioma “da un grande odio può nascere un grande amore“, mai e poi mai. Una cosa però è certa, lo spettacolo: che vi troviate al Camp Nou, al Bernabeu, in una taperia nel Raval o al Museo del Jamon di Calle Gran Via basta che guardiate un istante dell’incontro e verrete catapultati nella storia del calcio.

ODI ET AMO – «Mi chiamo Luis ma da quando sono entrato qua dentro nessuno mi ha mai chiamato per nome o per cognome, al massimo quando mi hanno menzionato lo hanno fatto per ricordare il mestiere di mia madre, che tra l’altro, santa donna, quel lavoro lì non l’ha nemmeno mai fatto. Ma sono un calciatore, devo fare orecchie da mercante, mi pagano per questo. Adesso per tutti sono il maiale, o Giuda, o comunque qualcosa di brutto. Mi avvicino alla linea laterale e anche i bambini, che prima indossavano la mia maglietta, mi guardano come se avessero scoperto che Babbo Natale non esiste, anzi peggio: che Babbo Natale è morto e l’ho ucciso io. Cosa ho fatto di male? Nulla, roba da niente. Il calcio adesso è così, i trasferimenti sono all’ordine del giorno e noi calciatori siamo solo merci. Sono passato dal Barcellona al Real Madrid, okay, ma non ho fatto del male a nessuno. Come dite, quelle frasi d’amore sul Barca potevo risparmiarmele? Fa tutto parte del teatro che è diventato il calcio. Finché si odia si ama ancora no? E allora fatemi battere questo benedettissimo calcio d’angolo e alla fine della partita nemici come prima. E togliete questa testa di maiale da terra per favore, che così non si può andare avanti!».

LA MANITA FALLOIDE – «Molta gente non si ricorda di me ma quella sera lì io c’ero e ho fatto la storia. Vincemmo cinque a zero e io, Jeffren, segnai il quinto gol, quello della cosiddetta manita. Non potete non ricordarvi della manita, dai, soprattutto voi italiani che quando viene fuori un termine spagnolo lo usate ogni tre frasi. Xavi, Pedro, Villa, Villa. Stavamo quattro a zero per noi, un exploit incredibile con Mourinho, l’odioso Mourinho, a guardarci dalla panchina e a ringhiare fra i denti. Quattro a zero è un bel risultato soprattutto se a beccarlo sono i nemici di sempre, ma sentivamo che mancava qualcosa. Bojan si era mangiato due volte il quinto quando Guardiola, sempre sia lodato, decise di mettermi in campo e io non potevo dcelinare l’invito. Jeffren Issac Suarez Bermudez, ma solo Jeffren sulla maglietta per ragioni di spazio. Un carneade diranno poi, un predestinato azzarderà qualcuno. Un fenomeno invece mi sentii io al novantunesimo di quel Barca-Real. Krkic si involò sulla destra e la mise nel mezzo, la provvidenza volle farmi trovare al limite dell’area piccola e di tibia ecco il pokerissimo. Cinque a zero, manita e tanti saluti al Real. Sono invincibile, sono il migliore e ho scritto la storia. Adesso, a venticinque anni, gioco nella serie B portoghese. Non capisco cosa sia andato storto».

Z.Z. – «Zinedine Zidane, questo è il mio nome. Zizou mi chiamano, perché agli artisti va pur dato un vezzeggiativo. Era il 2002 mi ricordo, il Real voleva la Decima, ma prima ancora doveva vincere la Nona. Ho antiche origini arabe, quindi sui numeri non mi sbaglio. Mi dissero quella sera che era il primo Clasico di Champions League e che, sì, ce n’erano stati altri ma quando ancora la televisione era in bianco e nero e la Coppa dei Campioni la giocava anche gente grassa con dei completi improponibili. Permettetemi una digressione, avete mai segnato con un pallonetto? Vi siete mai accorti di quanto sia difficile una roba del genere? Dover mettere il piede sotto al pallone per farlo alle spalle del portiere. Ci vuole delicatezza, ragazzi miei, e io quella sera lì ne ebbi a sufficienza. Avevamo Glasgow nel mirino, io però avevo anche l’incrocio dei pali stampato in fronte e lì al 55′ l’ho piazzata. Cioè, ho fatto un bel lob e non c’è che dire, ma mi aiutò Bonano. E poi chi è Bonano scusate? Di me ancora si parla, lui nella migliore delle ipotesi farà il rigattiere in Sudamerica, figuriamoci. Anche Steve segnò a pallonetto e poi a Glasgow ci andammo. In Scozia, se permettete un’altra digressione, segnai un gol bello abbastanza. In alcune sigle televisive lo fanno ancora rivedere e a me non spetta ancora nulla dai diritti d’autore».

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