Luigi De Agostini, la maglietta sette giorni su sette - Calcio News 24
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2014

Luigi De Agostini, la maglietta sette giorni su sette

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de agostini luigi juventus 2011 ifa

«Giocavo fino a settanta partite l’anno. Uno come me sarà calciatore per sempre…»

Luigi De Agostini –  “Gigi” per almeno trenta milioni di tifosi – è stato più di un calciatore a tinte bianconere (il primo amore all’Udinese e la maturazione sentimentale alla Juventus di fine anni ’80) con trascorsi anche nel Verona, nell’Inter e nella Reggiana. È stato soprattutto una brava persona, categoria di cui questo Paese ha sempre più un disperato bisogno. Al momento il calcio strillato delle pay-tv non gli interessa e preferisce dedicarsi ad altro. De Agostini, infatti, organizza “camp sociali” nella sua Tricesimo (comune ad un cross da Udine, tipo quelli che faceva da queste parti un certo Zico) e si gode le grida caotiche dei bambini che sognano CR7, ma neanche si immaginano chi fosse quel generoso LDA3. Uno che, tra le sue mille fatiche agonistiche, ebbe pure il compito, una jellata sera di 24 anni fa, di tirare un rigore di fronte a qualche miliardo di spettatori. Faceva caldo-umido, il 3 giugno 1990 a Napoli. E in palio, tanto per gradire, c’era la finale della Coppa del Mondo. Gigi sistemò la sfera sul dischetto: nessun fronzolo, rincorsa secca, palla nell’angolo a destra del portiere, gol. E poi relativo tap-in, fortissimo, per scaricare la tensione. Segnò quella sera, “DeAgo”, ma l’Italia intera perse. Il football, d’altronde, è roba per stomaci forti.

Smetti nel 1995, al termine di due stagioni nella Reggiana che avevano fatto scrivere a molti esperti di calcio “De Agostini sta vivendo una seconda giovinezza”…
«Il primo anno a Reggio fu effettivamente fantastico: team ben amalgamato e grande entusiasmo nonostante il grave infortunio di Futre. Nel secondo, invece, qualcosa si ruppe: l’equilibrio era drasticamente cambiato. Ed erano pure arrivati molti giovani, non tutti così rispettosi dei veterani. A fine stagione retrocedemmo in B ed io preferii dire basta. Avevo da poco compiuto 34 anni.»

Si può parlare di orgoglio ferito?
«Mah, diciamo che ho preferito chiudere in maniera dignitosa. Sai, una cosa è smettere quando te lo impongono gli altri. Un’altra è quando scegli di testa tua. Ti fa meno male, ecco. Fai prima a fartene una ragione.»

Anche perché, qualche mese dopo, una piccola rivincita ti è subito arrivata…
«Sì, la Reggiana fu affidata a Carlo Ancelotti in vista del campionato 1995/1996. Con Carlo eravamo amici per via della Nazionale e lui cosa fa di bello? Mi telefona, mi sprona a ripensarci. Mi dice che gli serve ancora la mia esperienza sul campo. Ma io avevo altri progetti per la testa così ringraziai Carletto e declinai l’invito.»

Quali progetti?
«Una piccola azienda di abbigliamento messa in piedi con la mia famiglia: eravamo pure bravi! (sorride) Mi rendo conto che smettere col pallone non è facile per nessuno. Nel mio caso 15 anni di carriera – tra Zico, la Nazionale, la Juventus, l’Inter ecc. – non si possono riassorbire in un attimo, ma in quel ’95 andò esattamente così. Ero un po’ svuotato mentalmente. Dovevo disintossicarmi dallo stress.»

Destino di chi nella vita è stato stakanovista della sfera di cuoio. Mai un rifiuto, mai un sottrarsi ai propri doveri. Anche quando l’allenatore ti schierava in un altro ruolo…
«Ti ricordi quando il calcio si giocava con i numeri dall’uno all’undici? Ecco, io ero un 3 naturale, un esterno sinistro come si dice oggi. Eppure una delle mie più grandi soddisfazioni sportive è stato aver giocato con tutte le maglie tranne quella del portiere… Quando arrivai alla Juventus, nel 1987, ero chiuso da Antonio Cabrini che quell’anno andava ancora forte e così Rino Marchesi mi schierò da mediano di centrocampo. Fu la mia fortuna perché mi aprì le porte della Nazionale azzurra con cui giocai sia gli Europei dell’88 che i Mondiali di Italia ’90. Avessi insistito per fare l’esterno, passato Cabrini, mi sarei trovato davanti un certo Paolo Maldini…»

Torniamo al mito di Stakanov…
«Sia nel 1987/’88 che nel 1989/’90 arrivai a giocare qualcosa come 70 partite ufficiali all’anno, amichevoli escluse: è un falso storico che oggi si giochi più di un tempo, sai? (ride) Io non me ne accorsi nemmeno perché il mio fisico è sempre stato reattivo e a prova di infortuni, ma effettivamente arrivavo a fine stagione distrutto tra impegni in campionato, le varie coppe Italia ed UEFA, le due Nazionali (A e Olimpica), gli eventuali spareggi ecc. Però era il mio lavoro. Un gran bel lavoro.»

Alla Juventus, nell’estate del 1987, da debuttante bianconero ti diedero subito la maglia numero 10. E Platini si era ritirato appena da un paio di mesi. Io, al tuo posto, avrei pensato: “Ok, questi sono tutti pazzi”…
«Ed invece fecero bene: il 10 me lo pigliai io, ma era logico che nessuno mi avrebbe mai chiesto 20 gol all’anno o assist da sessanta metri. Fu per levare un po’ di pressione a chi (Marino Magrin, NDR) Michel avrebbe dovuto sostituirlo sul serio.»

Ragioni quasi da Mourinho, ma tu il mister non hai mai voluto farlo…
«Non era la mia priorità. E poi quando ti ritrovi come maestri Massimo Giacomini, Osvaldo Bagnoli, Azeglio Vicini e soprattutto Dino Zoff – che mito Dinone, gli mando un abbraccio tramite il vostro sito! – capisci subito chi è tagliato per quel mestiere. Anzi, la vuoi sapere la verità?»

Dimmi, Gigi.
«Allenare non mi attira neppure oggi perché dentro di me, nonostante i miei 53 anni, mi sento ancora un giocatore. Quando avverto il profumo dell’erba, mi spunta subito un sorriso. Ecco perché mi sono reinventato uomo di campo. Anzi di Camp visto che a Tricesimo, il mio paese, organizzo piccole scuole-calcio con finalità sociali. A me non interessa scovare il nuovo top-player, ma insegnare ai bambini di 5/6 anni come si fa ad allacciarsi le scarpe e a vivere per la prima volta in gruppo. Una soddisfazione bellissima anche se in passato ho organizzato Camp più importanti diretti da Juventus e Real Madrid

Ti va di parlare di Italia ’90?
«Certo. Chiedimi pure quello che vuoi.»

luigi de agostiniBeh, per me la Nazionale delle Notti Magiche è rimasta nel cuore di moltissimi italiani addirittura più degli eroi di Berlino 2006. Il problema è: ti basta questo attestato d’amore come piccola ricompensa per un Mondiale sfuggito in quella maniera?
«Insomma… (riflette) Potrei cavarmela con un po’ di retorica, ma il problema è che quella sconfitta ai rigori con l’Argentina mi brucia ancora dentro. Quella Coppa del Mondo dovevamo portarcela a casa, punto. O perlomeno arrivare in finale a Roma con la Germania visto che i tedeschi, da che mondo è mondo, hanno sempre avuto paura nei nostri confronti.»

Tu – pochi se lo ricordano… – fosti l’ultimo a farci gioire in quella notte maledetta di Napoli contro l’Argentina. Il tuo rigore (il terzo della lista) superò il portierone Sergio Goycochea. Poi andarono sul dischetto Donadoni e Serena, quest’ultimo con uno sguardo cupissimo. E buonanotte…
«Donadoni e Serena, a ventiquattro anni di distanza, sono ancora da ammirare. Il mio è solo buon senso: calciare un rigore, durante il pathos di una partita o dopo 120 minuti di battaglia, non è un gioco da ragazzi. E quindi non parlerò mai mai male di un compagno che ha fallito dagli 11 metri. Ho sbagliato anch’io nella vita: ricordi Firenze (primavera del 1991, la Juventus ‘maifrediana’ di Baggio e Schillaci. NDR) quando Roby si rifiutò di tirare contro la sua ex squadra? Che casino quel giorno!»

Dimmi la verità: ma quel Goycochea – grande, grosso, con quelle manone che avevano ipnotizzato le stelle della Jugoslavia nei quarti di finale – un po’ di paura psicologica ve la faceva? Ricordo l’espressione preoccupata di Vicini, Schillaci coi crampi, Giannini e Vialli che erano già usciti…
«Paura? Onestamente avevo ben altro per la testa! Volevo tirare e basta. Un professionista si concentra e risponde all’appello del mister, tutto qui. Pensa che io, in allenamento, i rigori non li provavo nemmeno. Tanto poi in partita, con la tensione alle stelle, era tutto un altro paio di maniche…»

Abbiamo citato Roberto Baggio, prima. Tu che hai giocato sia con lui che con il suo idolo di sempre Zico, chi reputi il più grande?
«Con tutto l’enorme rispetto per Roby, quello che ho visto fare al Galinho non l’ho mai più visto replicare da nessun altro. Gli davi la palla – e sebbene avesse addosso quattro difensori con la bava alla bocca – lui, dopo un attimo, te la restituiva direttamente sul piede e con mezzo campo libero di fronte a te. Peccato che Zico non abbia potuto giocare contro le difese a zona: probabilmente avrebbe segnato cinquanta gol all’anno come fa Messi di questi tempi.»

Siete ancora in contatto?
«Sì, tra poco sarà il 25 dicembre e ci faremo gli auguri come ogni anno.»

Ne approfittiamo anche noi di CalcioNews24 con un leggero anticipo sull’evento: Buon Natale, Gigi! E Feliz Natal, Zico. Ovunque tu sia. P.S.: la settimana prossima festeggeremo capodanno assieme ad Alessandro Pistone, uno che ballò due stagioni nell’Inter e poi divenne condottiero in Inghilterra. Dove, tra parentesi, i tifosi dell’Everton lo rimpiangono ancora.

Rubrica a cura di Simone Sacco (per comunicare: calciototale75@gmail.com)

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