2009
Lazio-Inter, quando il campanilismo vince su tutto il resto
Il 5 maggio 2002 è un ricordo tutt’ora indelebile per chi ha memoria delle numerose follie andate in scena nella lunga storia del nostro campionato. In un Olimpico vestito a festa, una Lazio senza obiettivi – se non quello minimo di una qualificazione Uefa, che comunque sarebbe dovuta passare attraverso una certa combinazione di risultati – ospitava l’Inter di Cuper, lanciata verso un tricolore atteso 13 anni e che con una vittoria sarebbe divenuto realtà . Tifoserie gemellate, proclami importanti (“sorella Inter, spacca la Lazio”), e un clima da scampagnata primaverile: sembrava il preludio ad una farsa assoluta, poi tutti sappiamo come è andata a finire.
I biancocelesti in campo, una volta appreso del 2-0 maturato nei primi 10 minuti al Friuli (a proposito di farsa) e scongiurato quindi il possibile sorpasso scudetto dei giallorossi, si giocarono la gara infliggendo all’amica Inter una delle più grandi delusioni della sua storia sportiva, andandosi a prendere quell’Europa spalancatasi grazie al tonfo del Bologna.
Ieri sera il calcio ha probabilmente chiuso un cerchio, con il cinismo che da sempre costituisce il marchio di fabbrica di questo sport. Una Lazio che definire inconsistente è un puro eufemismo, ha scelto semplicemente il male minore: tra giocarsi la partita a viso aperto, cercando di ottenere una salvezza matematica che di fatto matematica già lo è (manca un punto, e forse neanche quello), e dare senza resistenza il lasciapassare all’Inter verso lo scudetto, togliendo di fatto ogni speranza alla Roma, è parso fin troppo evidente quale opzione è stata adottata, e se lo sport ci perde senz’altro qualcosa d’altra parte è pur vero che non si possono inventare motivazioni lì dove non ve ne sono.
Parliamo chiaramente, lasciando da parte moralismi e moralizzatori della domenica (Mughini, tanto per citarne uno): dopo i pollici versi di Totti e la rissa post-derby, che Lazio-Inter fosse una gara ad altissimo rischio di biscotto lo sapevamo tutti. E dirò di più: calendario alla mano, credo che l’atteggiamento della Lazio non sarebbe stato diverso neanche qualora l’Atalanta nel pomeriggio fosse riuscita a vincere la gara col Bologna.
Gli impegni non certo proibitivi dei biancocelesti nelle due restanti gare (Livorno fuori e Udinese in casa), sommati a quelli infernali degli orobici (Napoli fuori, poi il Palermo a Bergamo), avrebbero comunque messo al riparo gli uomini di Reja da brutte sorprese.
Con questo non intendo giustificare quanto successo, assolutamente. Intendo solo dire che rientra nella psicologia umana cercare in tutti i modi di danneggiare i propri odiati antagonisti, e se non entrano in gioco motivazioni più forti a reprimere l’istinto primario l’esito è pressochè scontato. Una Lazio con l’acqua alla gola, si sarebbe dovuta tappare il naso cancellando la rabbia per gli sfottò subiti qualche settimana fa e se la sarebbe dovuta giocare alla morte pur di non rimanere invischiata nelle sabbie mobili della zona retrocessione: il risultato, visti i rapporti di forza in campo, sarebbe potuto essere lo stesso, ma sarebbero cambiati tutti quegli aspetti che hanno fatto inorridire parecchi addetti ai lavori.
In quello che è stato un elevamento a potenza del concetto di campanilismo, c’è comunque parecchia gente (autorevole e non) che è riuscita addirittura a colpevolizzare i beneficiari di questa situazione, quasi come se il tutto fosse una macchinazione di Moratti e soci per portare a casa il risultato senza correre il minimo rischio: bè, cosa dire di fronte a tanta grazia, se non di ricorrere a uno specialista di acclamata fama nel campo della psichiatria, perchè risulta anche offensivo per l’intelligenza umana sottolineare come in tutta questa storia tutta capitolina la squadra di Mourinho non ha avuto nè arte, nè parte.
E mentre in Italia si inneggia allo scandalo e per poco non scatta una nuova inchiesta (che ovviamente non porterà a nulla, se non a far ammattire i futuri incaricati allo svolgimento della stessa), Oltremanica è andata in scena una situazione del tutto analoga, con protagonisti ovviamente differenti. Il Liverpool, pur di non farsi scavalcare dall’odiato United nell’albo della Premier (18 titoli per parte) ha gentilmente spianato la strada al Chelsea di Ancelotti verso la conquista del campionato, con buona pace di Ferguson e del bersagliatissimo Gary Neville (soggetto di uno slogan che la diceva lunga sull’inclinazione della Kop riguardo alla sfida coi Blues).
Quando si dice che tutto il mondo è Paese..