2015
Lichtsteiner: «Temevo di non giocare più»
Il terzino della Juventus rivela la sua paura prima dell’intervento
Poteva fare il bancario grazie all’apprendistato commerciale al Credit Suisse che fece negli anni del Grassoppher, ma Stephan Lichtsteiner è riuscito a sfondare nel calcio. Il terzino della Juventus è uno che non si tira mai indietro, che non sfugge alle proprie responsabilità, ma non è immune alle paure.
LA PAURA – E, infatti, prima dell’operazione al cuore ha temuto di non poter giocare più: «Prima dell’operazione ho pensato anche al peggio. Non è stato un momento facile, un intervento al cuore non è cosa di poco conto. Per fortuna avevo accanto la mia famiglia, gli amici e i tifosi che mi hanno fatto sentire il loro affetto. Non solo quelli juventini, tutti. Anche questo è il bello del calcio. Ho sempre avuto un solo obiettivo, farmi trovare pronto quando sarebbe arrivato il mio momento. Sapevo che dopo 40 giorni di stop non potevo essere al massimo, ma non mi sarei mai tirato indietro. Allegri mi ha chiesto un paio di volte “Come ti senti?”. Io gli ho risposto semplicemente “bene”. Non ero certo di giocare, ma volevo dare il mio contributo anche se avevo fatto solamente due allenamenti con la squadra. E’ dall’inizio della stagione che facciamo fatica, è importante che tutti i giocatori stringano i denti, anche a costo di fare brutte figure se non sono al massimo della condizione».
IL RITORNO – Tornato e nel migliore dei modi, visto il gol prezioso messo a segno contro il Borussia Moenchengladbach («Era ora che segnassi… Prima di giocare ero tranquillo, avevo tutti i test a posto e sono stato seguito da dottori di altissimo livello»), Lichtsteiner ha deluso solo la figlia maggiore Kim, di quasi 5 anni, che se lo stava godendo a tempo pieno: «Era contenta di avermi a casa, quando le ho detto che sarei andato in ritiro non l’ha presa bene. Non credo che abbia capito bene che cosa è successo», riporta La Gazzetta dello Sport.
L’INTERVENTO – Un miracolo? No, si tratta solo di scienza. Lo ha assicurato il professor Bruno Carù, cardiologo di fama mondiale, ai microfoni di Tuttosport: «Vent’anni fa un giocatore colpito da flutter atriale avrebbe dovuto smettere l’attività perché questa tecnica di ablazione non esisteva ancora. Adesso invece può non soltanto avere una vita normale ma continuare a fare il calciatore. Non ci sono tagli, né cicatrici, è un po’ come un prelievo di sangue. Si buca un’arteria o una vena e con una sonda si raggiunge il cuore per cauterizzare, ovvero bruciare, l’endocardio, la pellicola che riveste la parete interna del cuore. In questo modo si interrompe il circuito elettrico che dà origine ai battiti anomali e al flutter atriale. Recupero? Le nostre linee guida consigliano tempi più lunghi, soprattutto per il rischio di recidive. Più si dilatano i tempi di recupero più i pericoli diminuiscono: a sei mesi dall’ablazione, per esempio, ci sono meno probabilità che venga nuovamente colpito dal flutter atriale. Ma alla Juventus avranno calcolato i rischi».