Hanno Detto
Vialli: «Mancini ha fatto un mezzo miracolo. Vi racconto il mio libro»
Gianluca Vialli ha presentato il suo nuovo libro a tema Sampdoria e ha parlato del compagno e collega in nazionale Roberto Mancini
Gianluca Vialli a margine della presentazione del libro La Bella Stagione, edito da Mondadori e da oggi in uscita in libreria, ha ripercorso i suoi anni alla Sampdoria con uno sguardo al presente e al futuro. Le sue dichiarazioni.
LIBRO – «Siamo ancora un gruppo molto unito e ogni scusa è buona per stare in contatto e fare cose assieme. Non potevamo, per un anniversario così importante e prestigioso, lasciarci sfuggire questa opportunità di lavorare insieme, su un libro che raccontasse quell’impresa. Sono passati trent’anni e ci siamo ancora tutti, non sappiamo ancora per quanto tempo. Per questo è arrivato il momento di raccontarci come non l’abbiamo mai fatto. È un progetto realizzato a più di 30 mani e penso sia una cosa unica. È stato un esercizio utilissimo anche per noi, individualmente oltre che collettivo. Chi fa il calciatore regala emozioni e ricordi alle persone e andare a ricordare dentro di noi quello che abbiamo fatto, quello che è successo in quegli anni, è stato veramente bello. Ci ha permesso di rivivere quei ricordi e quelle emozioni. Scrivere un libro è un’esperienza molto affascinante. Ne abbiamo parlato con Marco Lanna e c’era la voglia di fare qualcosa per questa ricorrenza. Quando abbiamo presentato il progetto a Mondadori la risposta è stata entusiastica e ci siamo innamorati di quest’idea: di un romanzo sulla Sampdoria. Un romanzo è una storia attraverso la quale raccontare e spiegare i valori che ci hanno permesso di compiere qualcosa di unico. Valori come il rispetto, l’altruismo, l’amicizia, la condivisione, la lealtà, la fedeltà. Alla fine, da parte nostra, è un modo per dire che il segreto della nostra impresa sta tutta qui: nella condivisione di un’idea. Non è solo un libro per amanti di calcio o per i tifosi della Sampdoria. È utile e bello da leggere per tutti, indipendentemente dall’età e dal tifo. Un motivo aggiunto, per cui abbiamo deciso di farlo, è soddisfare anche il nostro desiderio filantropico. Il ricavato verrà donato alla Gaslini Onlus con la quale siamo sempre rimasti in contatto fin dai tempi in cui giocavamo. Il legame non si è mai spezzato e, quando unisci utile al dilettevole, ci fa stare meglio anche con noi stessi».
MANTOVANI – «Mantovani era una persona intelligente nel senso che riusciva a trovare l’equilibrio tra la parte emozionale, che dev’essere presente, e la parte del business, dove bisogna essere freddi. Lui questo equilibrio lo trovava sempre. Era un visionario. Vedeva più avanti di tutti, aveva una forte volontà: battere lo status quo, una sorta di Davide contro Golia, creare una squadra in grado di agitare le acque, creare uno tsunami. Era un uomo carismatico e straordinariamente coinvolgente. Lui ti trasmetteva questa visione. Quando si diceva che andavamo a letto con il pigiama della Sampdoria, era vero. Quando si sottolinea che i colori della Sampdoria erano una seconda pelle, era vero. Eravamo pronti a tutto, a metterci l’elmetto. Io guardavo Mantovani e pensavo: “voglio diventare come lui”. Ogni incontro era un momento dove imparare qualcosa. Non girava intorno alle parole. Era chiaro e diretto. Ricordo gli appuntamenti nel suo studio. Lo racconto nel libro. Quando andavi a prendere lo stipendio, facevi fatica a vederlo dietro alla scrivania avvolta nel fumo. Poi ti sedevi. Gli parlavi e ti dava una carica tale che uscivi sentendoti più alto e in grado di camminare sull’acqua. Al di là di un episodio in particolare, nel libro, la sua presenza è costante».
SASSOLINI – «Nel libro mi sono anche tolto dei sassolini rispetto al rapporto con Roberto Mancini. Eravamo complementari: lui era un ottimo numero dieci, io ero bravo a fare gol. Eravamo difficili da marcare, potevamo scambiarci in qualsiasi momento la posizione. Questo è stato il segreto della nostra efficacia come coppia. Correre per lui era un piacere, lui era felice di farmi degli assist. Nel libro racconto quello che succedeva di solito: in partita lui prendeva la palla a centrocampo, veniva attorniato da tre e quattro avversari perché lo reputavano il pericolo numero uno. Roberto buttava la sfera in avanti, a campanile. Io riuscivo a metterla a terra, facevo gol e il giorno dopo si leggeva sui giornali: “Grande assist di Mancini, gol di Vialli”. Diciamo che ne approfitto per dire che a volte non era proprio così».
MOMENTO CHIAVE – «La svolta è la cena della Beccaccia, che è il nome del ristorante in cui si svolse. Accadde in un momento della stagione molto complicato. Era la fine del girone di andata. Erano arrivati due o tre risultati negativi di fila. Sembrava che la squadra avesse perso fiducia. E in quel momento, anche su suggerimento del dottor Borea, che era il terzo elemento della triade, bravissimo nel leggere quelle che erano le situazioni psicologiche di un gruppo e suggerire come risolvere i problemi, decidemmo di fare questa cena. Ristorante chiuso per tutti, aperto solo per noi. Fu una di quelle situazioni in cui si chiarisce prima di far degenerare i problemi. E proprio in quella cena il gruppo si parlò con grande chiarezza. Con onestà. Con forza. In modo molto diretto. Alla fine quello che si può imparare da questo episodio è che i pugni bisogna darseli nella pancia e non nella schiena. Le cose vanno dette in faccia, perché è l’unico modo di poter risolvere i problemi soprattutto in maniera costruttiva. Quando l’obiettivo comune è più importante tutti gli altri, i problemi si risolvono. Io mi aspetto che tu faccia qualcosa per me sul campo e mi aspetto che tu mi dica cosa vuoi che io faccia per te sul campo. Lealtà, trasparenza e spirito costruttivo: quello fu la cena della Beccaccia per noi. Con quella noi raddrizzammo la rotta».
COME GESTIRE UN CLUB – «Gli anni passano, il calcio si evolve, cambia e tante cose sono diverse da prima. Non so se è il modo giusto di gestire un club, ma per me è l’equilibrio il fattore chiave. La necessità di essere sia sostenibili dal punto di vista finanziario, e questo ti costringe a lavorare in un certo modo senza che ti lasci condizionare dalle emozioni guardando più ai numeri, che dal punto di vista emotivo. È vero, bisogna essere rigorosi però lo si può fare portando avanti un certo tipo di valori che devono far parte di una visione del club. Si può essere rigorosi, ma anche persone che si lasciano trasportare dalle emozioni. Perché se trovi l’emozione diventi efficace. Della Sampdoria di quegli anni posso parlare, perché c’ero. Oggi da fuori è difficile parlare di come vengono gestiti i club. Uno legge e si fa delle idee. Se un giorno dovessi avere la fortuna di gestire un club spero di avere forza, coraggio e competenza per gestirlo con questo tipo di equilibrio».
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SCUDETTO A GENOVA – «Nel momento in cui uno sceglieva la Sampdoria lo faceva per Mantovani, la maglia, la qualità economica ma soprattutto la qualità della vita. L’ho detto 30 anni fa. Mi svegliavo, vedevo il sole, andavo in macchina su queste strade con a destra la montagna e a sinistra il mare, erano giornate bellissime. E c’era l’amicizia. I ristoranti. Le ragazze. C’era molto di Genova che ci convinceva e ci aveva convinto a sposare quel progetto. E devo dire che la visione, fossimo stati a Roma, Torino, Milano non avrebbe potuto essere la stessa. Non avresti potuto credere di essere Davide contro Golia. E ci dava fastidio non poter essere considerati i “Re della città” perché l’altra metà era rossoblù. Ma questa rivalità con il Genoa ha portato a situazioni positive. Tant’è vero che grazie a noi loro hanno fatto la loro migliore stagione, andando in Europa. Noi eravamo spinti a fare meglio per stare sopra di loro».
ESISTE UN MODELLO SAMPDORIA – «Credo che sia sempre possibile, sebbene il mondo sia cambiato. Ci sono situazioni che vanno affrontate in modo diverso, perché i ragazzi son cambiati rispetto a quello che eravamo noi. I ragazzi sono figli dei tempi e quindi chi li gestisce deve cambiare il modello di gestione. Secondo me si può ancora farcela. Può spiegarlo meglio Mancini che fa l’allenatore, io sono in un’altra fase della mia carriera. Il segreto comunque è creare una sorta di coesione tra club e squadra. Ci deve essere il senso di responsabilità, ma bisogna far innamorare i giocatori di quell’obiettivo».
NAZIONALE – «Sono entrato a far parte del gruppo solo da un paio d’anni e mi sono perso la fase iniziale, che è stata fondamentale. E credo che Mancini abbia fatto un mezzo miracolo. Ha creato un gruppo in cui io ho ritrovato quei valori di rispetto, realtà, coraggio, altruismo, senso di responsabilità».
CHAMPIONS LEAGUE – «Ricordo la partita decisiva per l’accesso alla finale. La giocammo a Sofia. In Jugoslavia non veniva considerata una gara sicura. Lo stadio era pieno di tifosi dello Stella Rossa. Combinazione stesso stadio in cui abbiamo fatto qualche rifinitura di recente, incredibile come ci siamo accorti che non sia cambiato. Ricordo quella partita come un’impresa, tenuto conto che siamo andati in svantaggio. Quello che ricordo meglio è l’arrivo allo stadio. C’era un clima da guerra. C’era la preoccupazione per i nostri tifosi, che erano lì ed erano in pericolo. Ma ci caricammo e divenne energia positiva. Sono esperienze di vita che creano un legame indissolubile. Non è solo vincere lo Scudetto o perdere una finale di Champions League. Che ci sia un lieto fine o meno, sono momento che ti legano per sempre. Ogni tanto leggo che il calcio non è un ambiente che favorisce la nascita di rapporti veri, non condivido questo punto di vista. Io ho tanti amici veri nel mondo del calcio di cui sono orgoglioso. E sono sono un dono che mi ha fatto il calcio. Quindi io credo che il calcio favorisca questo tipo di rapporti».
FUTURO ALLA SAMPDORIA – «Abbiamo scritto “La Bella Stagione” per celebrare un anniversario importante. Faccio fatica a collegare questa cosa a un intreccio futuro con la Sampdoria».
MANCINI – «Roberto dal punto di vista calcistico aveva sicuramente una marcia in più. Aveva la capacità di vedere le cose prima sul campo. Questa creatività, gli ha dato una base di partenza importante che lui ha saputo affinare attraverso studio e i corsi che ha fatto. Il suo valore aggiunto è stato di voler sempre progredire e migliorare. La capacità di gestire il gruppo con molta umanità ed equilibrio, con rispetto e competenza. A vent’anni le cose si fanno in maniera diversa, c’è meno ragionamento. Poi l’esperienza ti porta ad avere equilibrio. Io ho provato a fare l’allenatore, mi sono divertito e poi ho fatto una scelta diversa. Ora sono in una fase ancora diversa della mia vita. Ma lui l’allenatore lo sa fare benissimo».