2016

Boniek si racconta, dagli inizi alla fine della sua carriera

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E sui mondiali ’82: «L’Italia era troppo forte a meno che al posto mio in tribuna non ci fosse stato Rossi, forse così avremmo potuto vincere».

Un giocatore come pochi Zibì Bonek, classe ’56, ex Juventus e Roma, non molto prolifico in Serie A con 157 presenze e 31 gol, ma con un grande cuore. Chiunque lo abbia visto giocare sia in Italia sia con la nazionale Polacca ha ben fissi nella memoria le sue corse, i suoi dribbling e i suoi tiri secchi. Ora si divide tra Roma, dove vive, e tra la Polonia, dove presiede la federazione gioco calcio polacca. Nell’intervista rilasciata al Corriere dello Sport ha raccontato la sua carriera da calciatore, dagli inizi sino al suo ritiro.

GLI INIZI – «Anche io, come moltissimi giocatori, ho iniziato a giocare in strada. È lì che si formano, in tutto il mondo, i buoni giocatori e forse anche le buone persone». Cominicia così Boniek, ricordando l’importanza di iniziare giocando per strada perché in quel mondo così duro si capisce subito chi sarà un giocatore vero di calcio e chi no, ma non solo. Giocare in strada insegna anche una regola fondamentale, quella del più forte, che, in realtà, per un bambino gracilecome Zibì sarebbe stato il problema maggiore ma, sulla strada, vige un’altra regola, quella del proprietario del pallone. E chi è che aveva il pallone migliore nella città di Bydgoszcz? Ovviamente Boniek perché, come ha ricordato lui: «Avevo una sfera di cuoio. L’avevo perché mio padre giocava in Serie A e, questo, accendeva su di me una luce particolare». Boniek iniziò a giocare a calcio sul serio a undici anni, a centrocampo ma già dimostrava di avere spiccate doti offensive. Ma le difficoltà furono tante tant’è che: «Andai in una società del mio paese e lì trovai un allenatore che mi faceva piangere – ricorda Boniek – Mi ripeteva sempre che ero piccolo, che dovevo crescere e aspettare». Fu capace di aspettare e, a 17 anni, mentre giocava per la Serie B polacca arrivò la chiamata del Widzew Lodz, una squadra a 300 chilometri di distanza da casa. «A 17 anni lasciai casa. Mia madre pianse ma le promisi che mi sarei laureato. E così feci».

LA NAZIONALE – Il primo mondiale lo giocò giovanissimo, a 22 anni, in Argentina, ma il suo ricordo è simile a quello dell’allenatore che lo faceva piangere, Boniek voleva giocare anche in virtù del riconoscimento quale migliore giocatore dell’anno vinto in Polonia. E mentre le critiche piovevano sull’allenatore, del gruppo che bene aveva fatto ai precedenti Mondiali di Germania, provò a metterlo in campo e: «Scesi in campo e segnai due gol – ricorda BoniekDa allora ho sempre giocato». Racconta anche un piccolo anedotto di quando, dopo la sconfitta, immeritata a dir suo, contro i padroni di casa dell’Argentina, il dittatore Videla entrò nello spogliatoio e vedendolo piangere chiese all’allenatore perché quel ragazzo piangesse. La risposta di Boniek a 38 anni di distanza è stata: «Che domanda era? Non piangevo certo per amore su quella panca». Il Mondiale ’82 fu diverso, lì la sua Polonia intrapese un cammino simile a quello del 1974 ma venne fermata dall’Italia che pochi giorni dopo si sarebbe laureata Campione del Mondo. Nella semifinale Boniek non c’era in campo perché squalificato, a causa di un’ingiusta ammonizione rimediata nella partita precedente contro l’URSS, ma probabilmente il risultato non sarebbe cambiato perché: «L’Italia era troppo forte – a meno che – Al posto mio in tribuna non ci fosse stato Rossi, allora forse così avremmo potuto vincere».

LA JUVENTUS – «Mi trovai subito bene perché appena arrivai nello spogliatoio trovai dei campioni, sorridenti e accoglienti – ricorda Boniek del primo impatto con la Juventus – Al primo allenamento chiesi a Zoff se dovevo dargli del tu o del lei. Lui mi guardò e sorrise». Con la Juventus furono anche 2 finali di Coppa Campioni, di cui una persa, e una vittoria della Coppa delle Coppe, quindi la sua definitiva consacrazione in campo europeo. E proprio su una delle due finali di Coppa Campioni ricorda bene quanto fu devastante perdere la finale contro l’Amburgo: «Mi dispiace molto, specie per i sessantamila tifosi in lacrime allo stadio. Non li dimentico». L’altra finale invece, quella tristemente nota per il disastro, è avvolta dall’angoscia di quelle 39 vite spezzate, tant’è che: «Noi non volevamo giocare, fummo costretti per ragioni di ordine pubblico – Il numero dei morti lo scoprì in seguito quando – Per andare a Tirana feci scalo a Bari e, mentre prendevo un caffé con il pilota, scoprii che i morti erano stati trentanove. Fui distrutto».

LA ROMA – Quella fu la sua ultima partita in maglia bianconera, perché già aveva trovato un accordo con la Roma. In realtà l’accordo con Dino Viola lo aveva trovato già tre anni prima, nel momento in cui passò alla Juventus, ma: «La Polonia era strana, perché la decisione per il trasferimento doveva arrivare dal Ministro dello Sport, che non era d’accordo con il pagamento rateizzato proposto dalla Roma e preferì mandarmi alla Juventus». Così fu, ma ogni promessa è un debito e dopo due anni e mezzo, Dino Viola lo cercò di nuovo per portarlo a Roma, cosa che in effetti avvenne. Arrivò in una Roma forte, ma non più fortissima come quella della finale contro il Liverpool, ma che continuava a lottare per lo Scudetto, come quello della stagione 1985-1986, quando la Roma, dopo una rimonta strepitosa alla Juventus, perse clamorosamente la penultima partita di campionato, in casa, contro il Lecce. «Ho ancora i bruciori di stomaco se ripenso a quel giorno all’Olimpico – ricorda BoniekVincevamo uno a zero e, se l’arbitro non ci avesse annulato un gol per un fuorigioco inesistente, saremmo andati avanti di due gol. Poi non so cosa accadde ma ci fecero tre gol e ci stesero».

I GIOCATORI – In una carriera come la sua di giocatori forti, Boniek, ne ha incontrati molti e molti, uno su tutti Maradona, che considera fuori concorso. Tra i giocatori “normali” i campioni che ricorda come eccezionali sono quattro Platini, Falcao, Rummenigge e Zico. Ma era una Serie A diversa, era il «campionato più richiesto al mondo allora. Mentre ora vedo gli stadi vuoti e per giunta sempre gli stessi di quando giocavo io». Tra i giocatori attuali in Italia, Totti è quello che più di tutti può cambiare le sorti di una partita e, il suo attaccamento alla maglia giallorossa e il suo carattere professionale gli hanno permesso di arrivare a giocare ancora a 39 anni, a differenza di chi: «Con un centesimo del suo talento, perde la testa facilmente».

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