2015

¡No nos importa la muerte!

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Franklin Lobos, il piede fatato che rimase chiuso nella miniera di San José

Sotto terra è buio, molto buio. Ci si riconosce difficilmente se non fosse per le luci sul casco, ed è pure una fortuna per Franklin Lobos. Non che abbia mai tenuto all’aspetto fisico eh, solo che quando giocava a pallone aveva un corpo un po’ meno sgraziato, aveva anche più capelli e il volto non era segnato da tutte quelle rughe. Non era un figurino, nelle vecchie foto che comparivano sui giornali sfoggiava un mullet già desueto per l’epoca e una stempiatura abbastanza visibile, sembrava il tipico personaggio televisivo da sitcom sudamericana. Adesso, nel buio della miniera, non importa tanto il taglio di capelli o la pelle, il cui colore è diventato tendente all’arancione, un po’ come tutte le cose nella regione di Atacama. Atacama come il deserto, arancione come il rame, che in questa zona è la principale fonte di guadagno. Quasi cinquanta chilometri a nord della città di Copiapò, quasi settecento metri sotto la superficie terrestre, Franklin Lobos è uno dei trentatré mineros che attendono di saperne di più sul loro destino.

EL CACHI – Franklin Lobos lo chiamavano el Cachi, come il frutto, oppure el Mortero Magico – il Mortaio Magico – perché aveva una carnagione particolare e perché aveva un tiro come nessuno dalle parti di Copiapò. Ha giocato a calcio durante gli anni Ottanta, perlopiù in squadre minori che però ha aiutato ad arrivare nella prima serie del calcio cileno, come il Cobresal. Il Cobresal ha sede vicino a Diego de Almagro in una cittadina che si chiama El Salvador: Cobresal altri non è che una crasi tra l’abbreviazione di El Salvador, e quindi Sal, e la parola Cobre, che in spagnolo significa rame. Lo spiega ad alcuni dei minatori che come lui stanno aspettando da giorni, tra una scatoletta di tonno e un bicchiere di latte ci può stare un racconto per stemperare la tensione e non pensare a quello che successo o, peggio, a quello che succederà. Fuori il Cile tutto è in ansia, sotto terra invece si parla di pallone. E Franklin Lobos racconta, anche se molti lo conoscono già e per gran parte di quei trentadue compagni è stato un idolo quando sotto il sole battente di El Salvador fulminava i portieri avversari con dei calci di punizione a dir poco perfetti.

PUNIZIONI – I più giovani hanno visto qualcosa di lui su Youtube ma non hanno appreso appieno che fenomeno fosse quel Lobos. La palla tra i piedi, il numero otto sulle spalle e la testa alta: per il Club de Deportes Cobresal questo trittico quasi sempre significava vittoria. Una volta a El Salvador, racconta Lobos sollecitato, arrivò La Serena, altra squadra del nord del Cile. Qualcuno tra gli astanti c’era quel giorno, ricorda quel pomeriggio ramato, la sabbia del deserto a fare da curva all’Estadio del Cobre, che ovviamente significa stadio del rame. Lobos ricorda la prima punizione, la palla che si alza e si abbassa in una frazione di secondo e si va a depositare in porta dopo aver dato un bacetto al palo. Ricorda la seconda, calciata con potenza sempre sul primo palo, stavolta all’incrocio a beffare per l’ennesima volta il portiere. Alla terza gli vengono un po’ i lucciconi agli occhi. Palla quasi sul calcio d’angolo alla sinistra dell’estremo difensore avversario. Chiunque crosserebbe, chiunque. Lobos no, calcia di collo esterno facendo fare alla sua gamba destra un movimento a pendolo che sembrerebbe quasi innaturale se non fosse che in quel momento l’attenzione è tutta su quella saetta che si fatica a definire semplicemente come tiro e che sfonda la porta infilandosi per l’ennesima volta là dove il palo e la traversa formano la zona più bella della porta. Tre punizioni, tre gol, La Serena colpito e affondato.

MAI VISTO – Il Cobresal è il ricordo più vivido della carriera di Lobos, un classe 1957 che è nato in una famiglia di minatori e poi minero lo è diventato pure lui. Tra il rame raccolto dal padre e quello che permette a Lobos stesso di mandare avanti la moglie e tre figli c’è in mezzo tutta una storia di calci di punizione e di palloni disegnati per gli attaccanti. Ivan Zamorano, uno che di calcio ne sa abbastanza, anni dopo avrà modo di dire: «Non ho mai visto nessun altro giocatore con la sua tecnica, aveva un modo di calciare che era unico, con una parte del collo del piede che permetteva di dare al pallone un effetto mai visto». Prima partita col Cobresal, primo gol su punizione. Poi la promozione in Primera Division sempre coi Mineros – il Cobresal lo chiamano “i minatori” perché la miniera è dappertutto – e il passaggio più a sud ad Antofagasta per due fugaci apparizioni a metà degli Ottanta, quando il richiamo del Cobre è troppo forte. Lobos addirittura gioca con le giovanili del Cile ma non lo chiamano mai in prima squadra, eppure in una stagione mette dentro quindici calci di punizione. Da fermo è il migliore, non ce n’è per nessuno. Magari non un velocista, ma chi è che correrebbe con tutta quella sabbia attorno, con un sole che rende arida qualsiasi cosa e dà quel dannato colore arancione ramato a tutto quello che è mai esistito a El Salvador.

CAMPAMENTO ESPERANZA – Finisce di giocare a calcio e il passaggio in miniera è d’obbligo, anche se è stato el Cachi, el Mortero Magico che ne segnò tre al grande Wirtz, uno dei migliori portieri cileni che ebbe un po’ di successo pure in Europa. Franklin Lobos è sotto terra a San José il 5 agosto del 2010, con lui altri trentadue colleghi impegnati nell’escavazione del rame e dell’oro. Alle due del pomeriggio la terra crolla, Lobos e gli altri sono prigionieri della miniera e lo resteranno per molto, troppo tempo. Il Cile si stringe attorno a San José e ai trentatré mineros, tra cui l’ex calciatore, quello col piede destro che terrorizzava i portieri di tutto il Paese. I primi tentativi di soccorso non vanno a buon fine, una frana ha chiuso una possibile via di fuga e i trentatré rimangono a settecento metri di profondità per ora che diventano giorni che diventano mesi. Si vocifera che si facciano inviare da casa la cannabis e riviste pornografiche per rimanere un po’ umani nell’inferno dove vivono, senza vedere altro se non il buio.

MONDIALE – Lobos è il calciatore e ha tempo per narrare le sue gesta, ma anche Luis Urzua ha giocato a pallone e dopo la carriera da futbolista si è dato al lavoro minerario. Urzua è il capo, la guida spirituale dei mineros, colui che alza il morale e incita i compagni. E’ lui l’ultimo a uscire il 14 ottobre 2010, alle 21.55 di quel giorno il Guinness World Records lo premia virtualmente come l’uomo che per più tempo è rimasto intrappolato sotto terra nella storia dell’umanità. Il Cile esulta, i minatori sono salvi dopo quasi tre mesi. Lobos è il ventisettesimo a uscire dall’inferno di Atacama, e appena esce ci sono due braccia che conosce ad attenderlo: non si tratta di un familiare o di un collega in maniera, è Manuel Gonzalez, che venticinque anni prima aveva sfidato il grande Cachi in un Cobresal – O’Higgins. Quasi quattro anni dopo l’incidente di San José i trentatré minatori sono tornati di fronte a una telecamera, tutti e trentatré abbracciati, pure Lobos, pure Urzua che si stacca dal gruppo e si rivolge alla telecamera stessa. «La Spagna è difficile? L’Olanda è difficile?» chiede Luis, che aggiunge: «Non ci fa paura il gruppo della morte, non ci spaventa la morte, perché la morte l’abbiamo già vinta». Si riferisce alle partite che dovrà affrontare il Cile a Brasile 2014. I minatori prendono la terra che li ha ospitati per tre mesi e la mettono in dei barattoli che porteranno ai giocatori per dar loro la giusta carica. Il Cile passerà quel gruppo d’inferno e uscirà solo ai rigori con il Brasile. Franklin Lobos si dirà orgoglioso dei giocatori di Sampaoli e poi, come sempre, tornerà a lavorare in mezzo al rame.

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