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Il mal d’Africa diventa mal d’Italia

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L’applicazione della Convenzione di Cotonou rischia di dare un altro duro colpo ai vivai italiani

Uno degli argomenti più caldi, nei giorni in cui il campionato si ferma e si dà il giusto spazio agli impegni delle nostre Nazionali, con quella maggiore di Antonio Conte che cerca sei punti contro Azerbaigian e Malta e quella Under 21 di Gigi Di Biagio che vuole strappare il pass per l’Europeo, riguarda sicuramente l’applicazione della Convenzione di Cotonou, che regola in maniera definitiva la gestione dei rapporti tra i Paesi dell’Africa sub-sahariana, della zona caraibica e del Pacifico con l’Unione Europea: nell’ambito calcistico, riassumendo in pochissime parole, i calciatori nati nei 79 Paesi che fanno parte di questa zona, riassunta con l’acronimo ACP, saranno considerati a tutti gli effetti comunitari, con conseguenze che possono dare nuove opportunità ma al tempo stesso possono toglierne molte altre.

Da qualche anno sono presenti in maniera abbondante giocatori nati nei Paesi africani, facenti parti della zona ACP o meno, e soprattutto le nostre formazioni giovanili hanno visto l’arrivo di giovani talenti provenienti dal Ghana, piuttosto che dal Senegal o dal Sierra Leone. Una fucina di ragazzi che, sull’onda di un movimento che si è andato ad affermare soprattutto in Bundesliga e in Ligue 1, ha portato all’accettazione di una nuova generazione di calciatori africani che, svolgendo la stessa trafila dei ragazzini “made in Italy”, hanno poi grandi possibilità di approdare in prima squadra. E ovviamente qual è la prima conseguenza, quella che salta maggiormente all’occhio degli appassionati? Ovviamente la presenza nelle formazioni del nostro massimo campionato, o in quelle di Serie B e soprattutto in quelle di Lega Pro, di giocatori provenienti dall’Africa dal dubbio talento, ma sicuramente dai costi più ridotti, che vanno ad affollare i campionati italiani e che vanno a togliere il posto a giocatori “del posto”.

Le conseguenze sul nostro calcio, per l’applicazione di una Convenzione che non può comunque essere ignorata per degli obblighi a livello comunitario, però non si limitano all’utilizzo di giocatori provenienti da Paesi “sconosciuti” sul piano calcistico, al posto di ragazzi italiani, covati e coccolati dai nostri tecnici (i migliori d’Europa, checchè se ne dica). Questa non è altro che la conseguenza finale di un giro di denaro e di un mercato particolarmente vivo nei Paesi presenti a sud del nostro meridione. L’arrivo in Italia di un numero quasi inquantificabili di calciatori africani è legato soprattutto ai costi decisamente contenuti della compravendita dei loro cartellini, dell’offerta di ingaggi altrettanti ridotti per questi ragazzi, che vedono lo sbarco nelle formazioni giovanili di Serie A come il raggiungimento dell’Eldorado del calcio, e anche dalla bramosia di alcuni procuratori, che per primi hanno deciso di esplorare il mercato africano per andare a caccia dei migliori giovanissimi delle proprie generazioni in modo da portarli in Italia, presentarli ai dirigenti e ai tecnici come giocatori dal talento assicurato e dal grande futuro e infine strappare dei contratti convenienti per i ragazzi in questione, ma soprattutto per sè stessi.

Così, spazio a casi sicuramente particolari ma dei quali non vogliamo mettere in dubbio il talento: ha fatto sicuramente discutere la situazione del laziale Minala, sul quale si è fatto un gran parlare sulla sua età anagrafica ma le qui qualità tecniche hanno dato una grande mano alla formazione Primavera della Lazio, trascinata comunque da tantissimi giovani talenti italiani. Ma per quanti esempi ci possano essere come quello di Minala, o del nuovo crack in maglia vuola Babacar, ce ne sono tantissimi che si vedono tutte le mattine domenicali sui campi di periferia, con le maglie delle formazioni Primavera o con quelle delle squadre di Lega Pro dando pochi risultati sul campo ma ottenendo comunque la fiducia dei propri tecnici e soprattutto dei propri dirigenti, i quali vedono in loro l’esempio più chiaro di un mercato globale, in cui acquistare dieci ragazzini provenienti da Paesi poveri e quindi calcisticamente inferiori costa quanto la promozione di uno, massimo due elementi autoctoni dal talento più spiccato, dal futuro più roseo davanti a sè, ma anche dalle pretese economiche inevitabilmente più alte.

Così tornano in mente le parole pronunciate, alla fine dell’estate, dal presidente federale Tavecchio nel giorno del suo insediamento. È stato giustamente alzato un polverone per il suo esempio, per la storiella inventata sul momento sul fantomatico Opti Pobà e la sua presenza nella formazione titolare della Lazio, ma il concetto che il nuovo numero 1 della FIGC non è riuscito ad esprimere in maniera felice si presenta, in forma attuale, nel nostro calcio: sono tanti, anzi troppi i giocatori provenienti da mercati esotici che vanno a portare via spazio importante ai nostri talenti, in nome di accordi economici particolarmente favorevoli per le società e per chi gestisce la procura di questi ragazzi.

I dubbi rimangono forti, le regole sono fatte per essere rispettate ma la speranza è quella che le società sfruttino con la massima parsimonia questa possibilità di attingere apertamente dall’ampio, ma solitamente poco fruttuoso mercato africano, e da quelli dei Caraibi e del Pacifico ancor meno favorevoli sul piano tecnico, come ha dimostrato l’intera storia del calcio. Perchè risparmiare denaro è utile, molto utile, ma valorizzare il talento di casa lo è ancora di più, per il bene dei club e dell’intero movimento.

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