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Heysel, Andrea Lorentini: «Una tragedia nazionale, morirono anche tifosi interisti. Con la Juve non c’è piena condivisione della vicenda. Ringrazio la Nazionale, ha ritirato la maglia 39»

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Andrea Lorentini, presidente dell’associazione familiari vittime dell’Heysel, è tornato sulla triste vicenda

Belgio-Italia a Bruxelles richiama alla memoria la tragica pagina dello stadio Heysel, quando la finale di Coppa dei Campioni del 29 maggio 1985 si trasformò in una carneficina con 39 morti. A tenere vivo il ricordo di quel giorno c’è l’Associazione familiari vittime dell’Heysel, presieduta da Andrea Lorentini, figlio di Roberto, deceduto sugli spalti. Il Corriere della Sera lo ha intervistato.

UNA TRAGEDIA NAZIONALE – «Sì, non è stata solo una tragedia di parte: oltre ai tifosi juventini, a un fotografo di Reggio Emilia e a 7 stranieri, quanti sanno che sono morti anche tre interisti?».

LA NAZIONALE HA RITIRATO LA MAGLIA 39 «Sì, allora abbiamo ringraziato molto il presidente Tavecchio per la sensibilità, come oggi facciamo con Gravina. La prima cerimonia si svolse nel 2015».

LA SUA PRIMA VOLTA ALL’HEYSEL – «No, fu nel 2005 per il ventennale: una sensazione straniante. Mio nonno Otello, che ha istituito l’associazione dopo la strage, raccontò a me e a mio fratello la dinamica degli incidenti. Il luogo è stato ricostruito, ma la morfologia dell’impianto non è poi così diversa. E quella sensazione non si cancella».

COME TENERE VIVO IL RICORDO – «Con diversi progetti di educazione civico-sportiva: la memoria fine a se stessa rischia di finire nel pietismo, noi cerchiamo di riempirla di contenuti sul fair play».

IL RAPPORTO CON LA JUVE – «C’è sempre stata una mancanza di memoria fin da subito e non siamo mai arrivati alla piena condivisione della vicenda, per cui noi facciamo il nostro percorso: la logica adesso è proprio quella di elevare la tragedia da vicenda di parte, con i morti e lo scalpo del nemico, a una tragedia europea e italiana».

SI GIOCO’ PER LIMITARE I DANNI – «Sì, è un elemento chiave. Mio nonno era a bordo campo accanto al cadavere di mio padre e pensava fossero matti a giocare. Ma poi anche in sede processuale è stato ricostruito che fu fondamentale disputare la partita per tenere tutti dentro lo stadio, mentre i carrarmati dell’esercito venivano chiamati per garantire il deflusso. Ma non era più un evento sportivo».

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