2017

Gullit: «Sacchi allenatore unico. Rimpianti? Non ne ho»

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Ruud Gullit presenta il suo nuovo libro e racconta la sua vita italiana: «La Serie A di adesso? Non la riconosco più: gli stadi sono vuoti»

Colonna del Milan dei tempi d’oro a cavallo degli anni ’80 e ’90, nonché dell’Olanda campione d’Europa 1988. Ha anche vinto il Pallone d’Oro giusto un anno prima, ma Ruud Gullit ha abbandonato presto le aspirazioni da allenatore dopo un paio di avventure tra Inghilterra e Olanda. Intervistato da “La Gazzetta dello Sport” in vista dell’uscita del suo nuovo libro (“Non guardare la palla”), l’olandese ha raccontato qualche aneddoto, tra cui un giudizio sul suo primo allenatore italiano: «Sacchi era avanti, un maestro dell’organizzazione. Il segreto è ripetere gli esercizi in allenamento. Noi attaccavamo in 11 contro 6, con solo i quattro difensori e i due centrocampisti centrali, e non facevamo mai gol. Poi Sacchi toglieva i due centrocampisti e non segnavamo neanche 11 contro 4: quella difesa era organizzatissima, potevi solo tirare da lontano. Sacchi era unico: quando sono andato alla Samp c’era Eriksson. Pareggiavamo 1­1 e lui: “Bravi ragazzi, avete fatto il massimo, la prossima volta andrà meglio”. Io sentivo e… “Che cosa?”. Con Sacchi, dopo un 1­-1, erano discussioni per una settimana».

CONFRONTO E COMPAGNI – Che cosa aveva Gullit più di Rijkaard e van Basten? «I capelli! Marco era un grande attaccante, egoista come un attaccante deve essere. Frank più riservato, ma per noi aveva anche umorismo. Il più talentuoso però era Maradona e il più matto Seba Rossi, il pescatore». E la Serie A di oggi? «In Olanda non la trasmettono in tv, ma è strano vedere gli stadi vuoti. Un giorno ho portato mio figlio a Milan­-Cesena, e lui: “Ma che cos’è questo?”. Non c’era nessuno. Il problema sono gli stadi vecchi, ma i risultati internazionali dimostrano che la vostra interpretazione del calcio è giusta». Kluivert oggi fa il dirigente al Psg, Vedremo mai Gullit dietro la scrivania? «No, non sono uomo da ufficio. Guardo Kluivert e Van Basten, bisogna stare tutto il giorno con il telefono all’orecchio. Non è la mia vita. Io ho deciso di fare il commentatore perché mio figlio di 15 anni sta con me. Per lui sono mamma e papà assieme, ho rifiutato anche offerte dalla Cina per non andare lontano. Adesso magari…». E il razzismo? Con Balotelli negli ultimi giorni sembra tornato un problema d’attualità. «Anche a me a Napoli dicevano “negro”, ma non lo consideravo razzismo. Secondo me avevano solo paura, allora giocavo al massimo e alla fine mi applaudivano. Con i falli era lo stesso: se mi picchiavano, mi alzavo subito. Se stai giù e ti lamenti, chi ti ha picchiato pensa “ah ah, allora gli ho fatto male…”. Io non volevo».

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