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Gianfranco Zola: «Sono stato un numero 10 per imitare i campioni»

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Gianfranco Zola si racconta: l’ex numero 10 parla così tra passato, presente e futuro della sua carriera

Sul Corriere della Sera Walter Veltroni sta intervistando i grandi numeri 10 della storia. Oggi è il turno di Gianfranco Zola.

IL NUMERO 10 – «Ero un ragazzino che viveva in un paesino piccolo della Sardegna e il calcio di alto livello era non so quante galassie lontano da me. Vivevo di emulazione, non avendo il calcio di qualità vicino mi abbeveravo a quello che vedevo in televisione e liberavo le fantasticherie di un bambino che guardava i calciatori e cercava di copiarli, di imparare da loro. E quelli a cui mi ispiravo avevano tutti le stesse caratteristiche: grande tecnica, grande inventiva, grande creatività. Quei giocatori, sempre o quasi, indossavano la maglia numero dieci. Per me quel numero, quel modo di giocare era la bellezza del calcio, il suo Dna».

PLATINI DISTINGUE I 10 IN REGISTI E FANTASISTI – «Ci sono dei numeri dieci che sono più portati a creare gioco, sono più bravi nella manovra e altri che sono più finalizzatori, credo che Michel, nella vostra intervista, li chiamasse “nove e mezzo”. Io credo di appartenere di più a questa seconda interpretazione del ruolo. Nelle squadre giovanili ho sempre giocato come attaccante, poi a 18 anni, quando andai alla Torres in serie C, ho fatto invece il centrocampista, offensivo ma centrocampista. E così anche quando sono andato al Napoli. Il passaggio al Parma mi ha riportato davanti, per ragioni tattiche, e in quella posizione ho dato il meglio di me stesso. Forse, quindi sono un “nove e mezzo”, felice di esserlo stato».

IL BOOM DELL’ARABIA – «Non mi piace, sinceramente. Ma non voglio giudicare. Io non mi trovo in quella situazione. Non è facile rinunciare a quei compensi. In qualsiasi lavoro, se l’offerta è cinque volte superiore a quello che prendi abitualmente, è naturale che uno ci pensi o accetti. Mi rendo conto che i soldi sono molto importanti però, non lo so, io vengo da un’epoca in cui, certo si guardava agli ingaggi, ma ci tenevamo molto anche a giocare nei campionati più importanti, nelle coppe più importanti. Ci piacevano la nazionale, gli europei, i mondiali… Molti giocatori di qualità, nella storia del calcio, hanno fato scelte in cui l’aspetto economico non è stato quello primario. Io sono stato uno di questi. Non voglio fare paragoni, non amo l’ipocrisia. Tutto è cambiato e il contesto va valutato. Ma rimane che per me la competitività del torneo in cui si gioca è importante, non meno del conto in banca».

MANCINI – «Sono rimasto sorpreso. Se devo essere sincero, non me l’aspettavo. Roberto ha fatto un grande lavoro, quando ha vinto l’Europeo. Non solo per il risultato, ma per il modo, lo stile in cui lo ha raggiunto. Dopo l’eliminazione ai mondiali io sono tra quelli che ha sostenuto che lui dovesse continuare. Pensavo volesse arrivare ai mondiali. Sono, anche per questo, sorpreso e molto dispiaciuto della sua rinuncia».

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