2014
Ganar y ganar y volver a ganar
Se n’è andato stamattina Luis Aragonés, noi di “C’eravamo tanto amati” abbiamo voluto ricordarlo così
GANAR – Vincere e vincere e tornare a vincere, questo era il motto di Luis Aragonés. E’ famosissima una sua conferenza stampa dove ripete la parola ganar fino quasi all’ossesso, come un mantra da far entrare nelle teste dei giocatori e di tutti quelli che lo circondano. Ganar, al nostro Aragonés, è riuscito abbastanza bene in cinquanta anni di carriera prima come calciatore e poi come allenatore e commissario tecnico. Soprattutto è stato un pioniere, quello che ha permesso alla Spagna di sbloccarsi e vincere un trofeo internazionale dopo quarantaquattro anni dall’ultimo trionfo in bianco e nero. Per questo oggi il calcio spagnolo sta vivendo una delle giornate più tristi degli ultimi anni. Alle ore 6.15 di stamani alla Clinica Cemtro di Madrid si è spento Luis Aragones, uno degli allenatori più forti e anche controversi della storia del futbol iberico. Aveva settantacinque anni, quasi tutti passati dietro a un pallone o a insegnare calcio.
HORTALEZA – Hortaleza è un quartiere periferico di Madrid, oggi è vicinissimo all’aeroporto di Barajas ed è una zona con palazzi enormi e qualche spazio verde qua e là; nel 1938 è solamente un ammasso di case parecchio distanti dal centro di Madrid e lì il 28 luglio, un anno prima dell’inizio dell’epoca franchista in Spagna, nasce Josè Luis Aragonés Suárez Martinez. Fin da piccolo sviluppa una gran passione per il calcio che lo porterà ad entrare nella squadra del suo quartiere (i gesuiti di Chamartin) e poi sempre più su fino ad arrivare al Getafe e poi al Real Madrid, che non lo fa mai esordire ma lo cede sempre in prestito. Da lì la sua carriera continua a Oviedo e ha un primo sussulto nel 1961 quando arriva la chiamata del Betis: centrocampista con spiccata propensione offensiva, Aragonés si mette in mostra coi betici fino al 1964 quando arriva la chiamata di quello che sarà il suo grande amore, l’Atletico Madrid. Zapatones – Aragones calvava il 44, per questo lo chiamavano “grandi scarpe” – coi colchoneros vince tutto in Spagna e sfiora l’impresa in Europa, venendo battuto nella ripetizione della finale 1973-74 di Bruxelles dal Bayern Monaco. E pensare che nella prima gara proprio Aragonés sblocca il risultato al 114′ prima del pari di Schwarzenbeck.
ATLETI – Nel 1974 inisce la carriera sul campo e iniza quella da allenatore. Il buon giorno si vede dal mattino e Aragonés guida il suo Atleti in dieci anni sul tetto del mondo (il Bayern aveva rinunciato alla Coppa Intercontinentale) e su quello di Spagna. Dal 1974 al 1987, esclusa una stagione al Betis, Aragones vince la maggior parte dei suoi titolo come mister e i colchoneros diventano una macchina da guerra. Poi arriva l’esperienza al Barcellona dove alza una Coppa del Re e un continuo girovagare lungo la penisola iberica fino al ritorno a Madrid sponda Calderon per risollevare un Atletico finito mestamente in Segunda Division. Ovviamente el Sabio – i soprannomi sono importanti, se Aragonés lo chiamavano il Saggio, un motivo valido doveva pur esserci – riporta nella Liga i biancorossi e, dopo un’esperienza al Maiorca, nel 2004 decide di accettare l’offerta della federazione calcistica spagnola e di portare la sua saggezza sulla panchina della Roja. Ancora in pochi lo sanno, ma questa scelta rivoluzionerà il calcio mondiale degli anni a venire. Il perché è presto detto: la Spagna ha giocatori di immensa qualità a disposizione, basti pensare alla selezione spagnola del Mondiale 2006 dove brillano i giovani Torres e Fabregas, Joaquin è al meglio della forma, Ramos è in ascesa ma è tutta la rosa ad essere forte. Quel Mondiale va male e la Spagna tradisce per l’ennesima volta le attese, tornando ad essere quella squadra fru fru molto bella da vedere ma poi inefficace al momento del bisogno.
QUALITA’ – Passano due anni e le cose cambiano in maniera totale. Aragonés decide di mettere la qualità al centro del campo, la Spagna è una nazionale giovane ma ha un gruppo già forte al quale però manca l’ultimo passo per diventare grande. Se oggi vediamo il famoso tiqui-taca al Camp Nou o se si sente parlare di modello spagnolo è perché prima del fisico Aragones, il piedone, ha messo proprio i piedi in primo piano. L’arrivo di Iniesta in nazionale è la chiave per l’attuazione del pensiero di Luis sul campo da calcio: a livello tecnico la Spagna non è seconda a nessuno e Aragonés decide di sfruttare questo vantaggio. Gli europei di Austria e Svizzera del 2008 sono il preludio al dominio del calcio iberico – e se si vuole anche delle squadre di club spagnole – negli anni a venire. Passaggi corti e gioco palla a terra, il 4-1-4-1 delle Furie Rosse mette in risalto l’intelligenza prima della forza, ne è un esempio il ruolo da playmaker del brasiliano meno brasiliano della storia, ovvero Marcos Senna. Xavi e Iniesta diventano muse del centrocampo e grazie anche a una difesa solida a Vienna la Spagna batte in finale la Germania dopo aver dominato l’Europeo – unico sussulto l’Italia, eliminata ai rigori ai quarti.
SABIO – Proprio quel successo, poco prima dell’ultima panchina della carriera al Fenerbahce, è quello che ha consacrato Aragonés tra i migliori del futbol. Non è stato solamente un Europeo, è stato l’inizio di una filosofia, un po’ come quando a scuola si legge che i più grandi movimenti artistici sono nati tra i circoli o in posti anonimi. Ecco, lo splendore del calcio spagnolo è nato grazie a un vecchietto di Hortaleza, uno pane al pane e vino al vino, anche un po’ troppo. Ricordiamo che nascere a Madrid nel 1938 comporta un cursus honorum all’interno di una delle dittature più bieche del ventesimo secolo e quindi anche a essere saggi o pionieri calciofili, può darsi che l’apertura mentale sia un po’ condizionata. Aragonés verrà ricordato anche come personaggio controverso, per le frasi razziste su Henry – invero più una battuta figlia dell’agonismo – oppure per essere stato l’untore che ha escluso Raul dalla nazionale. Guarda caso però Raul non ha partecipato a due europei e un mondiale che la Spagna ha vinto, tre su tre. Con Aragonés arriva l’Europa, con Del Bosque arriverà il mondo, ma tanti giocatori rimarranno legati al Sabio, artefice dei successi della Roja. Grande allenatore e grande tattico ma pure splendido motivatore, capace di impartire vere e proprie lezioni ai suoi giocatori e di infondere sensazioni positive ai suoi. Xavi lo ricorda come uno a cui piaceva prendere in giro ma anche ridere, motivare ma anche essere schietto. Ma soprattutto era uno a cui piaceva vincere, e per cui ganar era un fatto fisiologico.