2016
Tavecchio: «Il calcio nel mio destino»
Il presidente della FIGC si racconta: dalle banche al legame con l’Africa
Non ha mai smesso di viaggiare Carlo Tavecchio, che lo ha fatto in passato per passione e ora per professione. Il calcio, però, non lo considera a tutti gli effetti un lavoro: il presidente della FIGC si sente bancario, anche se non è più il suo mestiere.
LE RAPINE – Nella lunga intervista concessa a La Gazzetta dello Sport, il numero una della federazione italiana ha svelato di aver subito due rapine da direttore di banca: «La prima volta mi tennero chiuso per tre ore dentro il caveau con un mitra puntato in faccia finché non gli consegnai 40 milioni di lire. Ma fu nulla rispetto all’angoscia che provai nel 1975, l’anno del primo famoso sequestro di persona avvenuto al Nord. La ragazza viveva vicino a Ponte Lambro e una banda di calabresi voleva parte del riscatto consegnata da un funzionario di banca. Il presidente della Banca del credito cooperativo non mi lasciò scelta: “Vai tu”. Andai: io e un familiare della ragazza, d’accordo con le autorità locali, salimmo su una Mercedes bianca con una cassetta di legno raggiata che conteneva 250 milioni in banconote da diecimila lire, tutte firmate e legate con filo di rame. Istruzioni per la consegna tramite pizzini: li trovammo in quattro posti diversi, ognuno con un ordine che ci rimandava a un’altra località, fino ad arrivare al ponte della ferrovia di Brivio. Da lì dovevamo buttare giù la cassetta, ma non tutto andò come doveva: trattennero lo zio per una notte e lo picchiarono anche. A me non fecero nulla, ma l’ansia di quelle ore non me la scordo finché campo»
IL CALVARIO – Un’altra esperienza dolorosa è stata la lotta per vivere di suo fratello: «Quando mi hanno detto che mio fratello Gianni stava per morire, mi si è come spenta una luce dentro. E’ successo due anni fa, ero in piena campagna elettorale per la presidenza federale e pensai anche di smettere: mi sentivo troppo scosso per andare avanti. Per me fu un dramma doppio: il primo quell’emorragia cerebrale devastante, 78 giorni di coma, il sabato tornavo da Roma e non andavo a trovare mio fratello ma una mummia, era così irriconoscibile che mia moglie – lei fa tanto volontariato, si impressiona meno – le prime due settimane mi impedì di vederlo. Dopo quasi due mesi è tornato a vivere e oggi è lucidissimo, il segno che gli è rimasto addosso è solo la necessità di una carrozzella per spostarsi. Io invece mi porto dietro i segni del mio secondo dramma, non meno doloroso del primo: mi sono macerato un’altra volta, e pentito amaramente, quando mi sono reso conto di aver conosciuto davvero Gianni solo nel dolore di una disgrazia così. Ancora oggi, a volte, mi tormento con una domanda: ma c’era bisogno di vederlo quasi morire, per “vivere” nel modo giusto tuo fratello?».
SOGNI E LEGAMI – Cresciuto in oratorio, Tavecchio a 27 anni dirigeva già la sua prima filiale di banca, poi è diventato direttore generale, sovraintendendone 26. Durante un viaggio in Russia decide però di diventare broker di legname: «Ma il mio vero sogno è sempre stato fare il capo cantiere edile». Poi ha parlato anche del suo rapporto con l’Africa: «La mia Africa è un film che si inizia a girare nel 1974, quando un mio concittadino che faceva l’infermiere a Erba va a lavorare in un presidio ospedaliero in Togo. Comincia a scrivermi per chiedermi aiuti, un anno dopo vado a trovarlo e nel ‘76, quando divento sindaco di Ponte Lambro, propongo un gemellaggio con Afagnan, un paese poverissimo a 80 chilometri dalla capitale Lomé. Ma Padre Onorio, un sacerdote in missione lì con il sogno di costruire un ospedale, da me aveva bisogno di altro: un rapporto di natura politica con il presidente della repubblica del Togo per far decollare il suo progetto e un rapporto di amicizia che gli portasse un sostegno economico. Un grande orgoglio, soprattutto di mia moglie, è aver insegnato agli africani come non sprecare i pomodori. Prima lasciavano bruciare dal sole due raccolti all’anno, oggi producono 40.000 bottiglie di conserva al mese».
VECCHIA PASSIONE – Il calcio, però, era nel suo destino: «Il calcio per me erano i racconti di papà Mario sul Ponte Lambro degli Anni Trenta, un campo dove si era allenata la Nazionale medaglia d’oro a Berlino nel 1936 e la sua grande passione per l’Inter: mi portava a vedere gli allenamenti all’Arena e poi andavamo a San Siro con il treno e poi il tram, feci in tempo a vedere Veleno Lorenzi ancora in campo. Dunque il calcio, quel giorno del 1974, era solo un mezzo per coinvolgere i cittadini e in una sala del Comune nacque l’idea di fare dei manifesti colorati di arancio e blu – a quei tempi vinceva l’Olanda – da affiggere in tutto il paese: volevamo raccogliere mezzi per costituire una polisportiva, dedicata anche a tennis, ciclismo e atletica. Negli spogliatoi dello stadio, che in guerra era servito a scaldare la gente perché bruciarono le tribune in legno dopo averle smontate, vivevano ancora allora degli sfollati: prima furono trovate le case per loro, poi rinacquero l’impianto e il club. La Pontelambrese sarebbe salita dalla Terza categoria all’Eccellenza vincendo quattro campionati, io dalla carica di consigliere del Comitato lombardo alla presidenza della Lega nazionale dilettanti, costretto da Nizzola nel ’99. E poi il resto è storia recente, che si conosce già».