2014
Nando De Napoli, Rambo 2 (scudetti napoletani)
«Cosa mi manca del calcio? Tutte queste squadre che festeggiano sui pullman scoperti… Che invidia!»
Rambo 2 (scudetti napoletani) mi risponde al telefono in una bella mattinata di sole. La voce è rimasta quella dei bei tempi, sentita mille volte nei servizi notturni de La Domenica Sportiva quando Necco e Khune gli si aggrappavano famelici al collo. O a bordo campo al termine dell’ennesima partita tutto “cuore muscoli e cervello” giocata dall’Italia di Azeglio Vicini. Rambo 2 (scudetti) non si negava mai anche se l’outfit non era esattamente quello di un Beckham della situazione: sporco, sudato, coi capelli lunghi sulla fronte, la maglietta irriconoscibile per l’uso quasi rugbystico, lo sguardo candido del guerriero sfinito, un po’ alla Sylvester Stallone. Ed orgogliso, certo. Quello – il “pride” decantato in quegli anni dagli U2 – gli è rimasto fino ad oggi: «Se un giornalista mi chiede di cosa vado più fiero, non rispondo elencando scudetti e coppe. No, gli dico di essere andato ai Mondiali del 1986 in Messico come giocatore dell’Avellino. Unico caso nella storia del club biancoverde». Ecco, direi che non ci sia nient’altro da aggiungere. Passiamo la linea a Rambo 2 (per l’anagrafe Fernando De Napoli da Chiusano di San Domenico: una vita spesa tra lupi irpini, Napoli, Milan con altri due scudetti, Reggiana e Nazionale Under 21 e A) e mettiamoci pure comodi in poltrona a vedere il film. Un bel action-biografico con protagonista questo mastino del centrocampo, polmoni di titanio e piedi costantemente pronti a portare avanti la palla. Sempre più di là che di qua.
La tua vicenda calcistica termina a Reggio, nel 1997, a dieci anni esatti dal primo storico scudetto del Napoli. Avevi 34 anni…
«34 anni e il solito problema al ginocchio che mi portavo dietro da tanto, troppo tempo. In pratica si era riacutizzato il danno alla cartilagine nello stesso arto che mi ero infortunato prima di passare al Milan nel ’92. Erano quattro stagioni che quel dolore andava e veniva e quella volta capii che avevo davvero raggiunto il capolinea.»
Facciamo un attimo un passo indietro: perché lasciasti il Napoli per approdare al Milan stellare di Capello? All’epoca si disse che fosse per la “bulimia calcistica” di Silvio Berlusconi. Che tutti i migliori dovevano vestire il rossonero in quel 1992, anche a costo di stare a lungo in panchina…
«Questo è un falso storico. Capello decise di acquistarmi perché sapeva già che Rijkaard, prima o poi, sarebbe tornato all’Ajax (Frank difatti abbandonò il Milan l’anno successivo, dopo la sconfitta col Marsiglia nella finale ’93 di Champions League, NDR). Solo che poi io mi feci male al ginocchio quando ancora giocavo per il Napoli e la mia avventura a Milanello partì decisamente col piede sbagliato.»
A livello di fisicità sarebbe stato intrigante vedere un asse di centrocampo formato da Albertini-De Napoli…
«Già, ma quel posto finì giustamente a Marcel Desailly visto che io ero sempre in infermeria. Ecco, lì venne fuori il genio di Don Fabio: spostare il francese dalla difesa a qualche decina di metri più avanti. Desailly, nel ‘93/’94, fece una stagione devastante.»
Il tuo distacco dal mondo del pallone, comunque, avvenne in maniera soft: dal ’97 al 2005 sei stato team-manager della Reggiana.
«Viaggiare con la squadra mi piaceva un sacco: vestivo giacca e cravatta ma, sotto sotto, ero contento di frequentare ancora stadi e spogliatoi. Ma anche lì, a livello umano e dirigenziale, sapessi quante amarezze e delusioni… Ci ho pure rimesso un mucchio di soldi!»
Tant’è che nel 2005 la Reggiana viene estromessa dalla C1 (dove era arrivata fino ai playoff per la B) per irregolarità di bilancio. Ripartirà l’anno dopo dalla C2 grazie al molto diffuso “Lodo Petrucci”…
«Una bruttissima storia, talmente orrida che vorrei solo dimenticarmela per sempre. Se da allora ho mollato definitivamente il pallone dedicandomi ad altro è stato per quella cocente delusione umana e professionale. Io al salvataggio della Reggiana ci ho creduto fino all’ultimo: avevo pure depositato un assegno in banca (che poi si rilevò scoperto) rimettendoci del mio. E comunque…»
Vai pure avanti.
«Volevo solo aggiungere che nel calcio, quando passi dal campo alla scrivania, sei tenuto a cambiare molto. Molti lo fanno e restano a galla. Io non l’ho fatto, sono sempre rimasto fedele ai miei valori e alla mia genuinità, tant’è che ora mi dedico ad altro…»
Altro sarebbe l’enoteca ‘Divino’ a Vergato vicino a Bologna, giusto?
«Enoteca/caffetteria, per la precisione. L’ho fondata tempo fa assieme al mio socio, Matteo Leoni, un caro ragazzo bolognese che un bel giorno si è invaghito del mio modo di giocare ed è diventato un mio fan all’ennesima potenza. Vuoi sapere vita, morte e miracoli di Nando De Napoli? Domanda pure a lui! (ride) Matteo gestisce il locale mentre io giro per l’Italia alla ricerca dei vini migliori da servire.»
Cin cin! Levami una curiosità: come nacque il soprannome Rambo in quei reaganiani anni ’80?
«Me lo affibbiò la curva dell’Avellino, una squadra che porto tuttora tatuata nel cuore: lupo irpino ero e lupo irpino sono rimasto, guagliò! Devi sapere che all’epoca lo stadio Partenio era un acquitrino anche quando splendeva il sole! (ride) E a qualcuno devo essere sembrato Rambo in mezzo a tutto quel fango, coi capelli lunghi, la maglietta sporca di terra, la furia nello sguardo…»
I tuoi maestri di sempre?
«Bearzot e Vicini per motivi che non ti sto neanche a spiegare. E poi ovviamente Ottavio Bianchi. Non tanto per lo scudetto napoletano, ma per avermi fatto esordire in serie A nell’Avellino targato ‘83/’84. Infine Arrigo Sacchi. Molti lo ignorano ma fu l’Uomo di Fusignano ad impostarmi come calciatore moderno nel mio unico anno al Rimini nell’82/’83. Mamma mia quanti cazziatoni mi faceva l’Arrigo! (risate)»
Ci ripensi mai ad Italia ’90?
«Ci penso spesso. Soprattutto quando, nel football di questi anni, vedo tutti quei torpedoni scoperti per festeggiare qualsiasi cosa: la Coppa del Mondo, la Champions, lo scudetto, la coppa Italia… Mannaggia a loro, festeggiano sempre! La vuoi sapere la verità? Quel Mondiale lo abbiamo proprio buttato dalla finestra, Diego permettendo.»
Effettivamente non abbiamo ancora citato Diego durante quest’intervista…
«Maradona salta sempre fuori: lui è furbo, furbissimo. Ricordi quando disse ai napoletani che l’Italia si ricordava di loro solo quando c’era da tifare in una semifinale mondiale? Quando lo ritroveremo mai uno così? Magie sul campo e aforismi letterari fuori dal terreno di gioco.»
Tu quando lo hai ritrovato?
«Nel febbraio di quest’anno. Siamo andati a cena assieme a Roma. Lui era in Italia per risolvere i suoi problemi col fisco, ma si è ricordato di tanti suoi ex compagni e ci ha invitati al ristorante. Diego è un generoso di natura.»
Torniamo alla semifinale maledetta del ‘90: se Vicini te lo avesse chiesto, tu lo avresti tirato un rigore?
«Ero il sesto della lista, se ti serve come aneddoto. Se Serena avesse segnato e l’ultimo giocatore argentino sbagliato, sarei andato io sul dischetto come primo dei rigoristi ad oltranza. Avrei tirato centrale e fortissimo: boom, ‘na bomba! Va beh, lasciamo perdere, quella partita era da chiudere prima. Molto prima… (sospira)»
Ultima domanda. Nel 1989 il Napoli vince la sua prima coppa UEFA pareggiando 3-3 fuori casa con lo Stoccarda: ma è vero che tu, invece di festeggiare quell’impresa, ci restasti male per il pareggio in extremis dei tedeschi?
«Arieccolo… Ok, quella fu l’unica cavolata (il termine è leggermente più colorito… NDR) che combinai in sei anni di Napoli… e tutti a ricordarmela ogni santissima volta! (ride) E dire che poi quel gol tedesco fu pure ininfluente.»
Pardon, Nando.
«Figurati! Il fatto è che quando incontro qualche napoletano, pure qui nel reggiano dove abito da anni, la prima cosa che mi sento chiedere è: ‘Cumpà, ma quel gol dello Stoccarda oltre il novantesimo?’. E basta con ‘sto gol! (ride) Parliamo piuttosto degli scudetti del Napoli: lo sai chi è riuscito a vincerne non uno, ma ben due? Maradona, Carnevale, Ferrara e… indovina chi era il quarto?»
Rambo 2, la vendetta. Alziamo il calice e brindiamo alla tua. La settimana prossima resteremo sempre in Emilia e vi parleremo di un atleta altrettanto indomabile. Uno che ha giocato in porta e battuto ogni record di anzianità superando di tre anni buoni perfino un certo Dino Zoff. Il suo nome? Marco Ballotta. E pare che tra i pali faccia ancora faville…
Rubrica a cura di Simone Sacco (per comunicare: calciototale75@gmail.com)