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Fabio Capello: «Modric il 10 più forte. L’Arabia non è la Cina, il pubblico partecipa»

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Fabio Capello, ex allenatore e opinionista, si è raccontato in una lunga intervista a Walter Veltroni sul Corriere della Sera

Fabio Capello si è raccontato in una lunga intervista a Walter Veltroni sul Corriere della Sera.

IL NUMERO 10 AI SUOI TEMPI – «Il numero dieci era qualcuno che aveva qualcosa in più. Per visione di gioco, per doti tecniche, ma soprattutto per carisma. Si era numeri dieci sia in campo che nello spogliatoio. Qualcosa in più, non saprei come altro definirlo».

IL NUMERO 10 PIU’ FORTE CHE HA ALLENATO – «Albertini lo scelsi e lui era molto bravo a dare ordine ma non so dire se fosse un numero dieci come Suarez. Uno che ha queste caratteristiche oggi è certamente Modric, lui è sempre dove deve stare, ha un senso della posizione e una intelligenza calcistica rare. É un giocatore da “un tocco in meno”. Ci sono centrocampisti pur bravi che indugiano in quel tocco in più che consente agli avversari di chiudere gli spazi. Invece quelli che vedono tutto il campo e prevedono le dinamiche del gioco ancor prima di ricevere il pallone, possono permettersi il “tocco in meno” che mette in difficoltà l’avversario. Sono doto naturali, talento puro».

LASCIARE IL CALCIO GIOCATO – «Le mie ginocchia non mi consentivano di continuare. Allora se ti facevi un infortunio al menisco era un dramma, altro che artroscopia. Feci il primo a diciotto anni e il secondo a ventuno. Le ginocchia erano maciullate. Arrivai alla decisione di smettere per questo. Per fortuna, grazie a Gianni Rivera, passai subito a fare una cosa che mi piaceva molto: insegnare calcio ai ragazzi, quelli del Milan. Per questo non ho lasciato quel campo, quell’erba dove ho passato tanta parte della mia vita».

LA CINA – «Sono andato perché me lo ha chiesto Walter Sabatini. Per la prima volta mia moglie non mi ha seguito. Tutte le sere a mezzanotte ci sentivamo, c’erano le lacrime, io non riesco a stare senza di lei. Insomma ho dato le dimissioni, non ce la facevo. C’era fermento lì, ma il pubblico non partecipava, diversamente da quello che sembra stia succedendo in Arabia. Io ho avuto la fortuna di lavorare in quattro Paesi, oltre l’Italia: Spagna, Russia, Inghilterra, Cina. Sono state esperienze decisive. per me. La difficoltà più grande in Cina era la lingua. Ti racconto questa: quando allenavo avevo sei interpreti per le lingue dei singoli giocatori. Persino due per l’italiano perché uno poteva tradurre solo me e l’altro lo staff; sai come funziona in Cina… Puoi immaginarti per dare una indicazione, passavano ore… E spesso, anche in Russia, io dicevo una frase di tre parole e la traduzione durava dieci minuti. Cosa potevo sapere di quello che arrivava ai calciatori?»

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