2014

Dov’è finito l’impero austro-ungarico?

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Storie di nazionali che non ci sono più

Chi, come il sottoscritto, è un fanatico di almanacchi e statistiche, si sarà sicuramente incuriosito notando che in tempi andati il calcio europeo era dominato da nazionali ormai del tutto sparite dal circuito di quelli che contano. Si pensi alle vittorie agli Europei dell’Unione Sovietica e della Cecoslovacchia o ai piazzamenti della Jugoslavia, ad esempio. Su tutti, però, i dati che mi hanno impressionato di più da sempre sono quelli riguardanti l’Austria e l’Ungheria, due nazioni che per un cinquantennio sono state unite sotto gli araldi dell’impero asburgico e della Corona di Santo Stefano, e dal decennio che precede la Seconda Guerra Mondiale a quello che la segue hanno realmente dominato il calcio mondiale, per lo meno dal punto di vista del gioco. Sono gli anni del cosiddetto “ciclo danubiano”, dove appunto Austria e Ungheria, insieme alla Cecoslovacchia, anch’essa allora unita, praticano un gioco caratteristico che mischia palleggio a grandi doti atletiche. Credo che nel centenario del primo conflitto mondiale, evento che porta alla caduta dei grandi imperi sovranazionali, tra cui quello austro-ungarico in questione, sia doveroso ricordare le gesta di queste gloriose nazionali per far conoscere delle storie forse sconosciute ai più giovani.

IL CONTESTO – Negli anni ’30 e il calcio parla essenzialmente due lingue: l’italiano e l’austriaco. I due mentori del gioco, anzi del giuoco del calcio in questo periodo sono infatti due grandi amici: Vittorio Pozzo, piemontese, unico allenatore nella storia capace di vincere due edizioni dei Mondiali e fedele alla disciplina tattica del metodo, e Hugo Meisl, austriaco e fautore di una sintesi tra metodo e sistema. Austria e Ungheria, nonostante agli inizi del ‘900 fossero politicamente unite, furono distinte sin dall’inizio come federazioni calcistiche. L’Austria, fondata nel 1902, rappresenta una delle rappresentative nazionali più antiche del mondo. Il periodo d’oro di questa selezione è senza dubbio legata al celebre “Wunderteam”, la squadra delle meraviglie degli anni ’30. Nonostante non riuscirono a conquistare mai né un titolo mondiale né un alloro olimpico, gli austriaci, sotto la guida di Meisl, illuminarono il palcoscenico calcistico mostrando un gioco innovativo e moderno per l’epoca.

RECORD – Nei Mondiali del ’34, infatti, vennero eliminati di misura in semifinale a Milano dall’Italia, poi laureatasi campione. Stessa sorte la si ebbe alle Olimpiadi di Berlino del ’36, dove il solito Pozzo batté in finale l’amico di una vita Meisl grazie alla doppietta di Annibale Frossi, il calciatore con gli occhiali. Durante questo periodo l’Austria riuscì comunque a collezionare un invidiabile ciclo di imbattibilità, quattordici risultati utili consecutivi ottenuti tra il ’31 e il ’32. La fama dei biancorossi crebbe al punto che in quegli anni vennero invitati a Londra dai maestri di calcio inglesi per un’amichevole che si risolse con un 4-3 in favore dei britannici, ma che gli austriaci dominarono sul piano del gioco al punto da uscire dal campo tra gli applausi del pubblico di casa. Tra il ’31 e il ’34 la Cecoslovacchia perse soltanto tre partite, una con l’Italia, una con l’Inghilterra e la terza con la Cecoslovacchia, le altre squadre più forti dell’epoca insomma, e realizzò 101 gol in 31 gare, una media di 3 gol a partita!

STORIE – Nel 1938 l’Austria, inserita nel progetto nazista dell’“Anschluss”, perse la sua indipendenza politica e con questa, anche la sua nazionale di calcio, i cui membri furono costretti a giocare per la svastica tedesca. Memorabile fu il rifiuto di aderire a quel progetto da parte di Mathias Sindelar, il giocatore austriaco più forte dell’epoca, convinto antifascista che non soltanto “disertò” i Mondiali del ’38, ma nel corso della “Partita della Riunificazione” del 1938 al Prater di Vienna tra Austria e Germania, dopo aver punito i tedeschi con un gol andò a sbeffeggiare i gerarchi nazisti seduti in tribuna. Morirà nel ’39 a Milano insieme alla fidanzata ebrea Camilla Castagnola, per avvelenamento, quasi certamente ad opera della Gestapo, la feroce polizia del regime, che mai digerì il suo rifiuto a vestire la maglia della nazionale teutonica e ad iscriversi al Partito Nazionalsocialista. A partire dagli anni ’20 sulle sponde del Danubio iniziò a svilupparsi una nuova filosofia di gioco che oltre all’Austria portò l’Ungheria sotto i riflettori del calcio mondiale. Esclusa dai Giochi Olimpici del 1920 perché tra le nazioni fautrici del primo conflitto mondiale, l’Ungheria si presenta a Parigi nel 1924 come una delle favorite. Dopo un roboante 5-0 inflitto ai polacchi, persero incredibilmente 3-0 contro l’Egitto, di certo non una squadra impossibile da battere. È la giornata che passò alla storia come il “grande ammutinamento”, quella in cui, sembra, i giocatori ungheresi, guidati dal grande Bèla Guttman, ebreo, quello della maledizione al Benfica per farci capire, in segno di protesta contro il governo di Miklòs Horthy, reo di aver inserito cellule nazionaliste anche all’interno della dirigenza federale, si rifiutarono di giocare, ammutinando e auto-infliggendosi la sconfitta. Se volete avere qualche notizia più precisa in merito a questa pagina di storia fate un giro a Budapest, precisamente al “Borozo 6:3”, e davanti a un bicchiere di Tokaj fatevi raccontare della nazionale del ’24 e del grande ammutinamento.

QUEL MONDIALE E IL DECLINO – Il nome di questo wine bar richiama un’altra pagina di storia che vede protagonista la rappresentativa calcistica ungherese. Dal 1949 l’Ungheria venne inserita all’interno del blocco sovietico e anche qui, come accadde in Romania o nell’URSS, lo sport iniziò ad essere utilizzato come uno strumento per propagandare la maestosità del modello sovietico. Dopo aver vinto abbastanza agevolmente i Giochi Olimpici del ’52, l’Ungheria, che è ormai stretta intorno al suo fenomeno Puskas, andò a giocare la rituale amichevole a Wembley contro i maestri inglesi, un verdetto che prima o poi tocca a tutti quelli che sono considerati “i migliori a giocare al pallone”. Gli ungheresi strapazzarono gli inglesi prima dal punto di vista del gioco e poi da quello del risultato. Si imposero con un brutale 6 a 3, ma concedettero comunque la rivincita, stavolta in casa degli ungheresi. Forse sarebbe stato meglio che gli inglesi non prendessero l’aereo, perché l’anno seguente a Budapest ai britannici fu riservato un destino ancora peggiore: stavolta persero per 7 a 1! L’Ungheria non poté quindi che presentarsi ai Mondiali del ’54 come la prima tra le favorite. Le prime due partite non fecero altro che accreditare le previsioni della vigilia. I magiari si imposero sulla Corea del Sud e sulla Germania Ovest con due risultati da partita di tennis: 9 a 0 e 8 a 3. A quel punto però la faccenda iniziò a complicarsi. Nei quarti di finale e nelle semifinali gli ungheresi dovettero affrontare il Brasile, ancora a bocca asciutta dopo il disastro del “Maracanazo”, e i campioni del mondo in carica dell’Uruguay. Si trattò, si dice, di due partite tostissime, molto più simili a risse da bar che a incontri di calcio, che videro uscire malconci molti giocatori dell’Ungheria tra cui il suo gioiellino Puskas. L’Ungheria riuscì comunque ad imporsi e ad attenderla in finale si trovò di nuovo la Germania Ovest, alla quale aveva già mostrato la propria supremazia nella fase a gironi. Stavolta però qualcosa andò storto. Dopo un primo tempo finito 2 a 0 per gli ungheresi, come in un precedente di una partita che i tifosi della mia stessa squadra ricordano molto bene, i tedeschi ribaltarono il risultato nella ripresa, chiudendo sul 3 a 2 e aggiudicandosi il Mondiale. Fu l’interruzione di una serie di risultati utili che durava da 35 gare, da più di quattro anni! L’Ungheria tornò a casa a mani vuote e non riuscì mai più a vincere un titolo mondiale. La rivolta del 1956 rappresentò la prima picconata al regime filo-socialista di Budapest, molti giocatori, tra cui Puskas, abbandonarono il paese natale, si verificò forse un’apertura alla democrazia e pure la nazionale iniziò a perdere il suo prestigio. Ma questa, forse, è una storia che racconteremo un’altra volta.  

 

cc4

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