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2016

I poeti, che brutte creature

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dario hu bner ceta

Tra grappa, vino, sigarette e gol: la carriera di Dario Hübner

C’è un tavolino di legno in fondo alla sala, sotto un muro bicolore scrostato e male illuminato dal neon. A sedere su una sedia leggermente sgangherata, dietro un bicchiere di vino rosso, c’è Dario Hübner. È da solo, tamburella con la mano destra sul pacchetto di sigarette accanto al vino, sfila e infila la paglia dalla confezione per ammazzare il tempo. Intorno a lui si sente vociare in cremasco, un dialetto che ascolta ormai da tempo ma ancora comprende a fatica. Lui che nel cognome ha pure una dieresi, figurarsi se si mette a imparare il cremasco. Si sposta leggermente e mette i gomiti sul tavolo, la moglie di là lo chiama ma lui fa finta di nulla e si estranea, gli succede spesso. Guarda il muro di fronte a sé ma non smette di tamburellare sulle sigarette, mentre con l’altra mano si accarezza la barba ingrigita dal tempo. Manda giù un altro sorso di vino mentre lì accanto dei ragazzetti giocano con troppo vigore al calciobalilla. Dario Hübner li guarda e fa un mezzo sorriso, lui che col pallone ha vissuto ma che ha sempre rifiutato l’immagine del calciatore. Anacronistico ancora prima che andasse di moda, Hübner preferiva una grappa al bar piuttosto che una bottiglia di champagne nel locale più cool del momento. Fumava, fumava, fumava. Uno dei suoi molti vizi, e il riferimento al vizio del gol viene da sé. Hübner ora è un po’ più vecchio, più rotondo ma mantiene sempre quella specie di sorriso assorto sul suo volto, anche mentre guarda i ragazzetti frullare con veemenza le stecche del calciobalilla. La pallina si alza dal tavolo e rimbalza verso la sedia di Dario Hübner, fu Tatanka. Hübner si muove quel tanto che basta per dare un calcio alla piccola sfera bianca. Colpisce piano, la rimette precisa sul campo da gioco e per poco non segna. Non fa nemmeno caso ai ragazzetti sbigottiti, forse nemmeno sanno che lui era come Trezeguet.

IL CARPENTIERE – Dario Hübner non fa subito il calciatore professionista, sarebbe stato troppo facile. Inizialmente gioca vicino alla sua Trieste, dove è nato e dove arrivò il nonno da Francoforte anni addietro. Alterna la sua carriera sul campo da calcio a quella navale, dove è un modesto carpentiere. Lavora, e lavora sodo, ma quando può si rilassa fumandosi una bella sigaretta. Si dice anche che non riesca a stare senza birra, ma in servizio non beve mai. Mentre gioca però alle volte c’è chi lo scorge negli spogliatoi con una lattina, ma sembrano più che altro leggende metropolitane. A inizio carriera non segna molto, anche se il senso del gol non gli manca. Ha un fisico da bisonte e perché Bisonte diventi il suo soprannome c’è bisogno di un cambio di vita drastico e repentino: dal Pergocrema, con cui ha esordito nei professionisti, passa al Fano dove inizia finalmente a segnare e nel 1992 va in doppia cifra per la prima volta in vita sua, tanto che in Serie B il Cesena se ne accorge e questo Bisonte lo compra. Dario Hübner è una forza della natura, quando la palla è in area non ce n’è per nessuno. I difensori lo guardano come a prenderlo in giro perché ha già venticinque anni ma sembra averne quaranta. Puzza di sigarette, a volte si porta dietro anche l’odore di alcol. Il fisico è imponente ma di certo non da atleta, poco importa se anche in Serie B segna valanghe di gol. Va a finire che a Cesena ne fa 80 in 173 partite, una media di un gol ogni due gare. Vince anche la classifica del cannonieri in cadetteria e bissa quindi il successo personale ottenuto con il Fano in Serie C1. Uno come lui non può non essere perennemente sottovalutato, ha tutte le caratteristiche per essere un Piero Ciampi del pallone: non è un poeta, no, è un altro genere di artista ma ancora che tipo di artista sia non ci è dato sapere. La Serie A è il sogno ma la chiamata non arriva mai, tranne un giorno d’estate del 1997 quando è al suo paese a prendere un po’ di fresco dall’arsura e gli comunicano che a 30 anni farà il suo esordio in A col Brescia. Festeggia con un bicchiere di grappa.

IL BISONTE – Il 1997-98 è l’anno in cui l’Italia e la Serie A si rendono realmente di conto di cosa si sono persi nelle stagioni precedenti. A fine agosto a San Siro c’è Inter – Brescia. Tutti aspettano Ronaldo fino a quando quel ricciolone non prende palla nell’are interista e si gira scagliando la palla il gol all’esordio nella massima serie. A fine stagione le reti sono sedici di cui cinque su rigore, il Brescia retrocede pure nonostante un finale di stagione gagliardo ma che non basta per superare il Piacenza. Hübner segna e trascina la squadra, quando corre poi si incurva e sembra caricarsi tutti i compagni in groppa. La sua prima in A è buona, peccato per la retrocessione; tra l’altro è anche l’anno della consacrazione di un ragazzetto dal volto serio che anni più tardi verrà accolto in America col soprannome di Maestro. Anche in B non manca il suo apporto al Brescia e nonostante gli anni comincino a essere trentuno lui segna sempre tanto: ventuno reti, ma niente promozione, andrà meglio l’anno successivo quando metterà a referto ancora 21 gol – ma con un numero inferiore di partite – e le Rondinelle torneranno a volare in Serie A. Nel 2000-01 il Brescia si presenta in Serie A con Carletto Mazzone come allenatore, Andrea Pirlo a centrocampo, Roberto Baggio in attacco e Dario Hübner come terminale offensivo. Sarà un’annata splendida, perché la coppia Baggio – Hübner è quanto più bello partorito su un campo di periferia: Gino Corioni orchestra tutto dall’alto alla perfezione, il Brescia arriva settimo e lo fa in omaggio a Vittorio Mero, scomparso in un tragico incidente d’auto prima di una trasferta a Parma in Coppa Italia, con la notizia che arriva sul campo ai giocatori increduli, sfiniti. Hübner fa diciassette gol e a fine anno cambia aria, torna in Emilia-Romagna e va a Piacenza, non si sposta nemmeno di tanto. E per di più non cambia niente perché Tatanka, come lo chiamano da un po’ di tempo, segna pure al Garilli.

IL TORO – Un toro vestito tutto punto di rosso potrebbe sembrare il più grande paradosso della storia. Il toro viene bollato come vecchio, bollito, perché ha già 34 anni, ma la carta d’identità non significa nulla. Non ci si riesce a spiegare come possa Dario Hübner segnare così tanto e tenere uno stile di vita così lontano dai canoni del calciatore modello. Lui se ne frega, il Piacenza pure e Tatanka contribuisce alla salvezza degli emiliani. Salvezza arrivata all’ultimissima giornata – altrimenti non sarebbe il Piacenza – contro il Verona, rincorso per mesi e poi acciuffato e scaraventato giù con vigore e prepotenza il 5 maggio 2002 grazie al gol di Volpi e alla doppietta di Darione. Mentre a Udine David Trezeguet festeggia ben altri traguardi, quella data diventa storica per un altro motivo: Hübner segna 24 gol come il francese e diventa il più vecchio capocannoniere di tutta la Serie A, il più vecchio e senz’altro il più inaspettato. È una storia romantica, quasi poetica la sua, se non fosse che l’aura del poeta proprio non gli vuole calzare a pennello. Hübner segna, beve e fuma. Odia la vita mondana, sta spesso con la moglie e i figli nella loro cascina a Passarera, nel cremasco, rifugge le televisioni e fa spogliatoio con la sua genuinità, il suo modo di fare cordiale e diretto. Un centravanti schietto, che anche a trentacinque anni, quando ormai molti colleghi sono in pensione o a svernare segna 14 gol in Serie A che non bastano a tener su il Piacenza, arriva la retrocessione. Con quell’annata infausta, segnata dall’immagine di Hübner con la sigaretta in bocca mentre attende la ripresa del gioco in una gara piovosa al Garilli, si chiude la sua carriera ad alti livelli. Va all’Ancona e poi al Perugia ma non è più lui, complici anche dei momenti disastrosi all’interno delle società in cui va a giocare. Interrompe una striscia record: nel 2003-04 non va in doppia cifra, non accadeva dal 1990-91 in Serie C1 a Fano. Hübner chiuderà la sua enorme carriera solo nel 2011: prima Mantova, poi Chiari, Rodengo Saiano, Orsa Corte Franca, Castel Mella e Cavenago. Dalla Lega Pro alla Prima Categoria, sempre a infilare palloni in rete con quel suo modo sgraziato e bufalino.

LA FINE – Quando finisce di giocare prova la carriera da allenatore ma non ha fortuna. I suoi riccioli si fanno grigi e poi bianchi, le rughe affiorano sulla fronte e sulle guance ed è ora di ritirarsi, di darsi a altro. Gestisce un bar Dario Hübner, lo fa vicino casa nella zona di origine della moglie, nel cremasco. Ogni tanto lo assale la nostalgia per i tempi andati, per quel Brescia straordinario o per le annate a segnare gol su gol al Manuzzi oppure ancora per quella rincorsa favolosa col Piacenza. Proprio grazie al Piacenza si regalò una tournée americana con il Milan, che per qualche settimana fece vestire di rossonero il giocatore che più si allontanava dagli standard glamour del Diavolo. Carlo Ancelotti racconterà anni dopo che nello spogliatoio stava parlando con la squadra e non vedeva Hübner, salvo poi trovarlo in bagno armato di sigaretta e lattina di birra – calda, forse. Ancelotti narra che rimase sbigottito e chiese spiegazioni all’attaccante triestino, ricevendo di tutto punto una risposta spiazzante: «È una vita che faccio questo, e se non lo faccio non riesco a rendere al meglio. Sono venuto al Milan solamente per la pubblicità in modo che posso allungare la carriera di altri 2-3 anni. A quest’ora ero al mio paese a prendere un po’ di fresco. Terza cosa: la vuole una sigaretta?». Nel suo bar a quasi cinquant’anni Hübner è uno di quei cantastorie di paese che sembrano avere un direttore della fotografia tutto per loro. Regala sempre un sorriso da dietro al bancone, non dice di no a un bicchierino assieme. Racconta di quando sfidava Nesta, Maldini, Cannavaro. E spesso, non sempre ma spesso, nemmeno loro riuscivano a fermare il bisonte.

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