2015
Claudio Garella, voglio un’uscita spericolata
«Il calcio dà e toglie tanto. Eppure a me ha fatto conoscere due belle persone: Paolo Mantovani e Ferdinando Chiampan…»
Claudio Garella mi risponde al primo squillo. Sta guidando nel traffico diretto verso la sede dell’U.S.D. Barracuda, la società dilettantisca torinese nella quale presta servizio come dirigente. Una scuola-calcio nobile, quella del Barracuda, che esiste fin dal 1958 (quindi da quando Garellik aveva 3 anni) e che per il mitico portierone di – tra le altre – Lazio, Sampdoria, Verona, Napoli, Udinese ed Avellino – rappresenta quella boccata d’aria fresca quotidiana nei confronti di un mondo del pallone professionistico ed adulto che al momento pare non avere così urgenza di lui. «Ma io me ne frego – esordisce Garella piazzandoci subito una bella risata – il calcio resta una bellissima malattia per me, una passione che non ho minimamente voglia di spegnere solo perché i cosiddetti ‘grandi’ si sono scordati di me. Quindi ben venga questo mio ruolo tra i dilettanti: quando ami una cosa, puoi farla in provincia come a New York, non fa alcuna differenza». Ben detto, Garellik! Partiamo subito col piede giusto in quella che sarà un’intervista di pancia, assolutamante non edulcorata, genuina come l’uomo che me la sta rilasciando. E a proposito di arti inferiori…
Tempo fa guardavo una partita di Champions League e all’improvviso il telecronista di turno ha parlato di “intervento alla Garella”. Ovviamente l’estremo difensore aveva appena parato di piede…
«Ti posso rispondere in due maniere. La prima, naturalmente, è che fa sempre piacere essere ricordati a tanti anni di distanza visto che ho smesso di giocare nell’autunno del 1990 per un brutto infortunio ad Avellino. La seconda è che non ce la faccio più a spiegare alla stampa ed ai tifosi che io paravo anche con le mani! (ridacchia, ndr) Ormai questa ‘maledizione’ di Garella bravo solo con le parti basse me la porterò dietro finché campo…»
Il colpevole fu l’Avvocato Agnelli, vero?
«Sì, una volta disse ai media ‘Garella è il miglior portiere del mondo dalla cintola in giù’ o qualcosa del genere. Un grosso onore per me, comunque: non è mica da tutti finire tra gli aforisimi storici dell’Avvocato… Però mi tocca ancora dissentire: tra i miei miti di gioventù avevo sia Zoff che il ‘Giaguaro’ Castellini e con quest’ultimo ebbi pure la fortuna di lavorarci assieme a Napoli. Due “paratutto” che adoperavano soprattutto le mani. Le mani sono sempre state il non plus ultra di un portiere anche se già negli anni ’70 si cominciava a guardare ai numeri 1 olandesi, alla loro duttilità in campo: a me, ad esempio, piaceva Jan Jongbloed…»
Adesso, per assurdo, si è giunti all’esatto opposto nel metro di giudizio. Guardo Neuer, Courtois e de Gea e mi viene da dire: se non usassero i piedi sarebbero violentemente ripresi dai loro rispettivi allenatori…
«Già, Neuer spazza di piede a 20 metri dall’area di rigore e giù applausi a non finire. Courtois idem. Se l’avessi fatto io, avrei subito avuto i soliti soloni della critica – e lo dico con affetto, ci mancherebbe! – tipo Brera e Caminiti che avrebbero gridato al sacrilegio… Il calcio degli anni ’70 e ’80 era ancora un altro mondo, più polveroso forse.»
Vogliamo redimere la questione una volta per tutte?
«Certo, e lo vuoi sapere qual è il segreto? Semplice: la palla devi sempre prenderla in tutte le maniere, punto. Quando ti ritrovavi davanti gente assetatata di gol come Paolo Rossi o Pruzzo, non potevi andare troppo per il sottile! E allora te ne inventavi di tutti i colori, pur restando nell’ambito del regolamento che allora – non dimentichiamocelo – te lo permetteva.»
Già, il regolamento…
«Oggi giocare per un portiere è diventato impossibile! (Garella se la prende a cuore ed alza il tono di voce, ndr) Appena sfiori il pallone un centimetro fuori dall’area o travolgi l’attacante per troppo slancio, boom, rosso diretto e te ne vai a fare la doccia! Ma mi spieghi come li dobbiamo fermare ‘sti benedetti attaccanti moderni? Mica possiamo scomparire con la bacchetta magica…»
Soluzioni?
«Guarda, avessi 25 anni andrei sotto la sede della Lega Calcio, con altri miei colleghi, a protestare per la condizione assolutamente disparitaria che coinvolge la categoria dei portieri attuali.»
Cambiamo argomento e sfatiamo un’altra leggenda che accompagna la tua carriera: Garella che risorge lungo l’Adige, mentre indossava la maglia del Verona…
«Macché! Quando arrivai al Bentegodi, provenivo già da quattro grandi annate con la Sampdoria di Paolo Mantovani nella quale avevo giocato ben al di sopra della media. Il problema è che paravo in serie B e, sul finire degli anni ’70, giocare in quel campionato voleva dire semplicemente non esistere! Non c’era nemmeno una televisione a riprendere le nostre gare, ma sono stati comunque anni bellissimi. Che mi hanno ripagato della brutta esperienza nella Lazio dove non è che avessi combinato chissà quali disastri, ma solo sbagliato un paio di partite… Ma a Roma si sa come vanno le cose: una volta che subentra il pregiudizio, non te ne liberi più. Ed allora puntai verso Genova.»
A Verona in compenso arriva lo storico scudetto…
«Posso cavarmela con tre punti fermi, se vuoi: grande società, grandi giocatori, grande tifoseria. Tutti uniti verso un obbiettivo comune. Gli scudetti, in Italia, si vincono così da sempre. A Verona come a Napoli.»
Meglio il tricolore veronese o napoletano? E perdonami in anticipo per la domanda un po’ goffa…
«Vincere a Napoli, per me, batte il resto del mondo. A Madrid o Barcellona, altri due posti calienti del calcio mondiale, neanche si immaginano cosa significhi festeggiare sotto il Vesuvio. Voglio dire: noi alla partitella del giovedì, a Soccavo, avevamo 15mila spettatori e poi la domenica 100mila allo stadio. Se ci ripenso mi vengono i brividi…»
La partita più bella che hai giocato col Napoli?
«Il ritorno dei sedicesimi di finale della Coppa Campioni ’87/’88: Napoli-Real Madrid finita, ahimé, 1-1 (all’andata i Blancos vinsero 2-0 e la squadra di Diego Maradona abbandonò immediatamente la competizione, ndr). Anche se so già quello che stai per chiedermi…»
Mi tocca: il pareggio di Butragueño, a pochi minuti dalla fine del primo tempo, avvenne in seguito ad una mezza “garellata”…
«Sì, quell’uscita fu colpa mia, ma questo non toglie che tenemmo il Real in apnea per un tempo intero. Non ho mai visto un Napoli così devastante. Ed io guardavo quel match da una postazione privilegiata: dalla mia linea di porta.»
Sempre quell’anno il Napoli perse uno scudetto che sembrava già vinto, almeno fino a primavera inoltrata. Ed anche lì se ne sentirono di tutti i colori…
«Già, peccato che quell’anno dovemmo vedercela col primo Milan di Sacchi che aveva Baresi, Maldini, Donadoni, Gullit in forma strepitosa, Van Basten che era stato a riposo per più di metà campionato, ecc. E noi invece avevamo un’infermeria che urlava pietà per via dei ginocchi malandati di Maradona, Bagni, De Napoli…»
D’accordo, ma ci fu chi parlò addirittura di malavita coinvolta…
«Scudetto venduto alla camorra? Guarda, te lo dico con la massima onestà possibile: se solo avessi fiutato che qualcosa non andava, avrei salutatato tutti, caricato la macchina e me ne sarei tornato al Nord. Non scherziamo, dai: c’era gente coi bambini piccoli in quel Napoli e secondo te ce ne saremmo rimasti in città ad aspettare vendette o intimidazioni? Io sarei fuggito all’istante! Se non l’ho fatto è perché fu una debacle sportiva. Amara, ma assolutamente sportiva.»
Fu quello il boccone più duro da digerire?
«Ce ne sono stati un po’: le contestazioni alla Lazio, il mio ultimo anno a Napoli, l’infortunio ad Avellino che chiuse una volta per tutte la mia carriera… Uno strappo e via, Garella – a 35 anni – non gioca più. (sospira, ndr) E poi il dopo-calcio, certo. Ho fatto il corso da dirigente a Coverciano con docente un certo Italo Allodi, pensavo di poter dire la mia anche in questa nuova veste, ma evidentemente non ha funzionato. Il calcio ti dà tanto, ma allo stesso tempo ti leva anche tanto…»
Un piano B non lo avevi?
«Sì, una gioielleria a Verona che poi ho dovuto chiudere per ragioni familiari. Ma non credo che questo interessi granché ai tuoi lettori. Parliamo di football, và…»
Al momento, comunque, mi sembri un uomo che ha un bel rapporto con ciò che fa…
«Ci mancherebbe altro! (ride ndr) Faccio il dirigente tra i dilettanti, ma per me è sempre calcio. Al Barracuda come al Manchester United. Amo questo sport e non potrei mai farne a meno.»
Di chi invece senti terribilmente la mancanza? Amici il pallone te ne ha lasciati?
«Mi fai una domanda difficile… (riflette, ndr) Facciamo così, preferisco citarti due belle persone che non appartengono alla sfera dei calciatori, una ancora in vita e l’altra purtroppo no: Ferdinando Chiampan, l’azionista di maggioranza del Verona scudettato, e Paolo Mantovani, il grande papà eterno della Sampdoria. Quella è gente che ha fatto tantissimo, trascinata esclusivamente dall’amore per le proprie squadre. Se Paolo fosse ancora qui, lo inviterei subito a cena. E sono sicuro che passeremmo una serata stupenda, tra cibo, vino e bei ricordi.»
Rubrica a cura di Simone Sacco (per comunicare: calciototale75@gmail.com)