2015
I just can’t get enough
Un racconto su Celtic – Rangers 6-2 del 2000-01, un Old Firm indimenticabile
CELTIC PARK – Quando misi piede per la prima volta a Celtic Park mi accomodai al mio posto mentre i tifosi stavano cominciando a cantare una canzone che avevo sentito spesso in televisione negli ultimi anni. Mio padre mi spinse verso il mio seggiolino mentre io mi beavo del coro «When I’m with you Celtic, I go out of my head and I just can’t get enough». Gli chiesi cosa volesse dire ma lui bofonchiò una risposta piena di parolacce e nella quale udii indistintamente solo le parole Depeche Mode. Era teso mio padre quel giorno d’agosto, lo sarei diventato anch’io nel corso della mia vita e più volte guardando giocare il Celtic, ma allora ancora dovevo compiere dieci anni, li avrei festeggiati solo la settimana dopo. Era teso fin dalla mattina, era teso mentre guidava lungo la Gallowgate che ci avrebbe portato allo stadio, era teso mentre beveva la birra al pub e era teso mentre gli chiedevo come mai non eravamo ancora a sedere davanti al campo da gioco. «Ora, ci siamo, tra poco saremo in Paradiso» disse lui, ma io ancora non capivo. Era la mia prima volta, fino a quel giorno il calcio per me era quello della tv – ma solo quando stavo da mia madre. Mai stato a vedere una partita dal vivo, quel 28 agosto del 2000 però mio padre mi fece il più bel regalo di tutta la mia vita portandomi a vedere l’Old Firm.
IL PARADISO – La cosa che più mi colpì fu la marea di gente che occupava ogni singolo posto del Paradiso, come lo chiamava mio padre. Tutti rigorosamente vestiti di bianco e di verde, tutti tesi proprio come papà, ma nonostante i volti corrugati per una delle partite più importanti dell’anno, tutti stavano cantando. Non ero mai stato neppure a un concerto e quando partì You’ll Never Walk Alone pensai di aver sbagliato posto, non potevamo essere a una semplice partita di calcio: quasi 60000 tifosi del Celtic stavano intonando una melodia celestiale mentre le squadre stavano per entrare in campo. Ebbi la bella idea di chiedere a mio padre perché noi odiavamo così tanto il Celtic, «Stai zitto e non rompere proprio ora» fu la sua paterna e compiacente risposta. Vidi un signore entrare in campo, mi alzai un po’ sul seggiolino e riconobbi Martin O’Neill, il nostro allenatore. Lo salutai ma evidentemente lui non mi vide, forse anche lui era vittima della tensione prima di quel match così sentito. Io però ancora certe cose non le sapevo e quindi la mano di mio padre che mi trascinava giù a sedere fu una sorta di ritorno alla realtà mentre davanti a me sfilavano Larsson, Sutton e compagnia bella. Impietrito mi misi a fissarli e riconobbi pure uno dei miei idoli, Bobby Petta. Non se lo filava mai nessuno ma io lo adoravo da quando mia madre sbagliò a comprarmi il poster di Petrov e mi ritrovai questo olandese in camera attaccato al muro. Provai a cercare qualche informazione sulla rosa dei Rangers sul programma del match ma mi accorsi che mio padre aveva strappato la pagina con la loro formazione e si stava pulendo i rimasugli di pesce tra i denti.
L’INIZIO – Quando la partita iniziò mi sentii un pesce fuor d’acqua, non riuscivo ad essere così partecipe come tutti gli altri attorno a me. In nemmeno dieci secondi di gara c’era chi aveva insultato praticamente mezzi Gers e io invece avevo solo passato in rassegna tutto il Celtic Park, un’immagine meravigliosa ma in quell’istante del tutto slegata dalla partita. Mi risvegliò un calcio d’angolo per noi, conquistato proprio da Petta. Le maglie biancoverdi sul prato verde del Paradiso mi causarono il primo moto d’impeto e di coinvolgimento in quell’incontro, mi innamorai all’istante del contrasto. Quelli accanto a me offendevano la madre di Reyna e io pensavo al contrasto. Poi Moravick batté il calcio d’angolo, Klos uscì male, Larsson calciò ancora peggio ma sulla linea di fondò trovò Sutton pronto a metterla dentro. Non ci potevo credere, 1-0 per noi dopo nemmeno un minuto. Mio padre era frenetico, come lui anche tutti gli altri spettatori che iniziarono ancora una volta a cantare a squarciagola. Quando il gioco ripresa la frenesia era talmente tanta che per poco il mio vicino di posto non mi si sedette addosso, ancora fuori controllo per il gol di Sutton. Otto minuti più tardi la gioia fu ancora più grande: ancora Moravick dalla bandierina, Klos decise di rimanere in porta e Petrov anticipò di testa Ricksen mettendo in gol il due a zero. Attorno a me la gente piangeva di gioia, io abbracciavo chiunque mi capitasse a tiro pensando a quanto fossi fortunato in quel momento ad essere allo stadio e ad essere un tifoso del Celtic.
FINE PRIMO TEMPO – Nemmeno il tempo di mettermi a sedere – intanto avevo già cominciato a fare dei gestacci verso lo spicchio dei tifosi dei Gers, inconsapevole del fatto che tra migliaia di Bhoys potessero vedere me, un ragazzino di dieci anni alto un metro e un barattolo – che Lambert mise dentro il tre a zero. Paul Lambert era riuscito a piazzare un tiro nell’angolino basso dopo l’ennesimo affondo di Moravcik sulla fascia sinistra, per poi dirigersi proprio sotto di noi a esultare. Il mio capitano era lì sotto di me mentre mio padre mi prese in braccio – non lo faceva da anni – e urlò ai nostri compagni di settore: «E’ lui! Porta fortuna!» e finii abbracciato da una selva di mani sconosciute. Quando mi ripresi avevo al collo una sciarpa bianca e verde che puzzava di fritto ma che sventolai in aria mentre tutti gridavamo all’unisono il nostro amore per gli Hoops. Il tempo passava e io mi appassionavo sempre più, il mio sguardo si spostò definitivamente dagli spalti al campo da gioco e mi ritrovai catapultato in qualsiasi azione del Celtic. Stavamo dominando, in attacco il Rangers ancora non aveva fatto niente, tant’è che Dodds e Wallace venivano dati per scomparsi da mio padre. Stava finendo il primo tempo e mi accorsi che inconsapevolmente stavo cantando canzoni che fino a quel momento neppure conoscevo. La mia prima volta al Celtic Park e stavamo battendo 3-0 i Gers, non potevo chiedere di più. Lo dissi a papà e mi mise in guardia, perché le partite da che mondo e mondo finiscono al novantesimo. Mi incupii un po’, ma gli detti ragione quando Reyna accorciò le distanze al 40′. Presi a sbattere la sciarpa sul seggiolino consapevole che sarebbe andato tutto male, ma l’entusiasmo dei miei sodali all’intervallo mi riportò in paradiso.
NON E’ FINITA – Bastarono cinque minuti nella ripresa per convincermi che niente sarebbe andato storto. Poco dopo il centrocampo Henrik Larsson, uno dei centravanti più forti al mondo secondo il mio ingenuo parere, prese palla e se la portò avanti con il piede mancino. Era dalla parte opposta dello stadio ma mi ricordo che saltò Konterman con un tunnel e si diresse verso la porta indisturbato accorgendosi della posizione avanzata di Klos. La palla era sul sinistro ma Larsson si piegò dolcemente su un lato e toccò col destro il pallone in modo dolce e delicato e lo mandò a morire alle spalle del portiere. La mia prima partita dal vivo e già avevo assistito al gol più bello di sempre in uno dei match più sentiti. Stavamo 4-1 al 50′, esultai smodatamente ma mi ripresi conscio dell’insegnamento di mio padre, uno dei pochi a dire il vero. E infatti cinque minuti dopo uno sciocco fallo in area – l’arbitro comunque si prese molti insulti, a ragion veduta – dette ai Rangers la possibilità di accorciare le distanze. 2-4, gol di Dodds e speranze riaccese. Ora ci castigano, pensai, ma mentre si materializzava questa mia convinzione mi resi conto che stavamo tornando padroni della sfida. O’Neill sbracciava dall’altra parte del campo, Bobby Petta aveva tirato un po’ il freno a mano ma tutti gli altri stavano continuando a giocare col cuore. Era l’Old Firm, non potevano farsi rimontare. Guardai il tabellone, sessantun minuti sul cronometro. Mi concentrai però sul mio Petta, intento a battere una punizione dalla fascia sinistra. Il suo sinistro disegnò una parabola splendida che incontrò la testa del solito Larsson. Il pallone entrò, ma era un gesto dovuto. Cinque a due a meno di mezz’ora dalla fine. L’avremmo vinta noi.
ORA E’ FINITA – L’ultima mezz’ora di gioco fu un massacro psicologico e calcistico per i Teddy Bears. I giocatori irretivano i Gers con una rete di passaggi che non avevo mai visto, noi in tribuna stavamo offendendo chiunque, un comportamento non proprio maturo a dire il vero ma chi se ne frega. Quando arrivò il novantesimo di tutto mi sarei aspettato tranne che il sesto gol del Celtic. E invece Mahe dalla fasci sinistra mise dentro un pallone perfetto sul quale Klos ovviamente non arrivò. Sutton in scivolata toccò la palla e si rialzò subito per esultare festante con tutti il pubblico del Celtic Park. Primo Old Firm per lui, così come per me e per O’Neill, e doppietta. Quando l’arbitro fischiò la fine stavo piangendo dalla gioia e mio padre lì con me mi abbracciò e non disse nulla. Sotto sotto era consapevole di aver fatto per una volta il suo dovere e di avermi dato a suo modo una certa educazione sentimentale. Mi tolsi la maglietta e rimasi a petto nudo a cantare come tutti i tifosi. I giocatori mi sfilarono davanti, sapevano di aver fatto la storia e che un 6-2 al Rangers era una cosa da raccontare ai nipoti. In quel momento la mia testa era occupata solamente dalla gioia, sarò sempre riconoscente con chiunque per quella giornata di agosto. Quello fu soltanto l’inizio, da quel giorno io del Celtic io non ne ho mai abbastanza.