Calcio italiano
Caldara: «Ho pensato di smettere. Milan? Non ero pronto ma i big pensano più a loro stessi»
Mattia Caldara si è raccontato in una lunga lettera pubblicata su Cronache di Spogliatoio: le dichiarazioni del difensore del Venezia
Mattia Caldara si è raccontato in una lunga lettera pubblicata su Cronache di Spogliatoio. Ecco alcuni stralci delle parole del difensore del Venezia.
DALLA JUVE AL MILAN – «Quando sono andato alla Juventus, e poi al Milan, ho capito che quel concetto di famiglia è più incentrato e traslato sul singolo. Lì ogni passo viene analizzato, fa notizia. Venivo da un gruppo in cui ogni tuo compagno era tuo fratello, i big invece pensano più a loro stessi. Mi impressionarono Cancelo e Pjanic, fortissimi. Giorgio Chiellini nella mia carriera ha giocato un ruolo unico fin dal primo istante. Dicembre 2016, perdiamo 3-1 contro la Juventus. Io sono un timidone, e sicuramente tra i momenti in cui mostro uno sprezzante senso di sfacciataggine non c’è quello in cui vado a chiedere la maglia a fine partita. Non voglio disturbare. Quel giorno, dopo il match, mi intervistano in flash zone, e racconto che purtroppo non ho avuto il coraggio di chiedergli la sua numero 3. Finisco, metto lo zaino in spalla e mi dirigo verso il pullman. Sento il nostro team manager arrivare correndo: «Mattia, aspetta! Mi hanno detto che Chiellini ha sentito l’intervista e vuole darti la sua maglia!». La tengo ancora nel cassetto. Quando ho firmato con i bianconeri, è stato colui che fin da subito mi ha dispensato consigli, soprattutto prima delle amichevoli in tournée negli USA».
INSIEME A HIGUAIN – «Io invece ero agitato il giorno in cui mi hanno presentato al Milan. Era anche il giorno di Gonzalo Higuaín. Non sapevo dove mi stessero portando, il team manager mi diede una maglietta e io chiesi: «Cosa devo fare? Autografarla?». Mi rispose: «Aspetta e vedrai». Salimmo su un palazzo in Piazza Duomo, mi affacciai e vidi una schiera di persone sotto ad applaudirci, cantare cori. Folle. Lui era pronto, io no. Mi sono goduto il momento, ma se me lo avessero detto prima probabilmente non sarei salito lassù. Non faceva per me».
INFORTUNIO – «C’è allenamento, durante uno scatto sento un dolore lancinante al tallone. Penso: «Chi diavolo mi ha colpito?». Mi volto, ma c’è solo Patrick Cutrone a due metri di distanza. «Come ha fatto a prendermi!?», non capisco. E invece realizzo che no, non è stato nessuno. Il mio tendine d’Achille aveva ceduto. Non avevo sensazioni pregresse, fastidi, dolore. Quella è stata la prima, vera botta mentale. Ho compreso che non sarebbe stata una cosa da poco. Non sapevano se operarmi, erano giorni confusi e io ero in balia di tanti punti interrogativi. Il tendine era ancora attaccato al 10%, volai in Finlandia dal prof Orava che mi consigliò di non operarmi. Così sono stato 50 giorni con il gesso: fermo, immobile, senza poter fare niente. Privato per la prima volta di giocare a calcio. E per noi calciatori, il calcio è la vita. Un primo blackout. Mi misi l’anima in pace: non c’era niente da fare».
ALTRO INFORTUNIO – «Dopo 5 mesi inizio a stare meglio. Era ormai aprile. In allenamento sento che ancora non è finito tutto, ma miglioro. Finalmente torno in campo: c’è la Coppa Italia contro la Lazio. Durante la partita sembrava che nei mesi precedenti non fosse accaduto niente. Mi sentivo bene, eccome. Tutto il dolore si era sciolto all’improvviso: ‘Cavolo, sto così bene…’. In settimana mi alleno al massimo, fiducioso. Ero appena tornato dopo 150 giorni senza calcio. Faccio un contrasto e niente, il legamento crociato collaterale decide di cedere. Buio. Mentalmente era come se fossi stato colpito da un meteorite. Da una spada che mi aveva appena trafitto. Lo sentivo: c’ero quasi. E invece eccolo, di nuovo, il baratro. Una botta ancora più dura della prima. Maligna, ipocrita. Era maggio, avevo già perso una stagione, quella del grande salto. Mi servirono alcuni giorni per realizzare. Proprio in quel momento iniziò anche il declino personale. Andai a Roma per fare riabilitazione, tornando a Milano a settembre inoltrato. Mister Giampaolo, di fatto, non l’ho neanche conosciuto, perché quando iniziai a essere più presente a Milanello, lui fu esonerato. Arrivò Pioli. Erano passati già tre mesi, ne servivano ancora due. Feci due amichevoli con la Primavera, ma lo sentivo: il ginocchio non stava bene. Sicuramente non era al 100%. Serviva tempo. Ancora».
ATALANTA – «A gennaio parlai con il mister, mi disse di avere pazienza. Poi l’Atalanta mi contattò per darmi un’opportunità. Mi dissi che tornare lì, dov’ero cresciuto, dove conoscevo già il modo di giocare, mi avrebbe aiutato a reinserirmi più velocemente, sentendomi a casa. La prima cosa da recuperare era la testa, fracassata di insicurezze fisiche. La mia tenuta mentale andava ritrovata, ancor prima del ginocchio. Appena arrivato, gioco titolare a 19 mesi di distanza dall’ultima volta. 19 mesi di tristezza: tornavo la sera, a casa, e non sorridevo più. In quelle settimane gioco anche in Champions League contro il Valencia. Penso che sì, sono tornato. Ci siamo quasi. Dai. Scatta il lockdown. Quando ripartiamo, ci cado di nuovo: il tendine rotuleo mi tradisce. E lì finisco nel baratro. ‘Calvario’ è una parola subdola, cattiva, ma è quella che racchiude al meglio quello che stavo vivendo. Mi sono guardato allo specchio, quasi in lacrime: ‘Cazzo, ho 25 anni e ogni due per tre mi faccio qualcosa. Com’è possibile? C’è qualcosa che sbaglio dentro di me’. Non era normale, così tanti infortuni. Ho cambiato le mie abitudini, provando a migliorare la mia vita: o geneticamente ero di carta velina, o c’era qualcosa che non andava. Cercavo questo errore in ogni parte di me. Mangiavo più verdura, curavo minuziosamente il riposo. Iniziai un percorso interiore insieme alla mia compagna, Nicole. Un cammino di riflessione personale. Lei mi vedeva soffrire: non ero più la stessa persona che aveva conosciuto. Scivolavo giù, nella corrente, trasportato senza diritto di reazione. Anche lei non stava bene: ‘Mattia, hai 25 anni e ami il tuo lavoro, ma non riesci mai a giocare sereno e tranquillo come vorresti’. Rientravo a casa ed ero triste, vuoto. Sapeva che era quello. Non mi chiedeva neanche più cosa avessi».
PENSARE DI SMETTERE – «Se in quelle sere ho pensato di smettere? Sì, una volta sì. Una mezza volta. Quando non riesci a venire a capo di una situazione da tanto tempo, la soluzione più estrema ti sembra la migliore. Ma non potevo mollare. Cazzo se non potevo. Io volevo essere felice, quella roba lì non mi bastava. Avevo lottato una vita per essere lì, non potevo appallottolare e gettare tutto nel cestino come un pezzo di carta pieno di parole a caso. Ero io a dovermi togliere la nebbia dalla testa. Mi sentivo limitato. Dovevo uscirne. Era un obbligo nei miei confronti e quelli della mia famiglia. Quel maledetto circolo vizioso doveva pur finire, prima o poi. Respiro, prendo fiato. Intanto avevo perso un altro anno di carriera e i rapporti intorno a me si stavano frantumando».
VENEZIA – «Qui a Venezia sto benissimo. Certo, è una città particolare, meravigliosa. Andiamo allo stadio in barca, siamo uno spogliatoio super multiculturale. Dall’Israele alla Finlandia, dal Suriname all’Islanda, fino all’Argentina. Maenpaa, ad esempio, dice che ci alleniamo troppo, lui non ci era abituato. Loro, i nordici, non hanno bisogno di musica o rituali di concentrazione. A volte vorrei rubare la loro spensieratezza. Alcuni giorni fa abbiamo giocato contro la Roma. Ho segnato, non accadeva da 3 anni, 10 mesi e 26 giorni. Un tempo infinito. Se guardate il fermo immagine della mia esultanza, è proprio sotto allo striscione del ‘Roma Club – Bergamo’. Una casualità incredibile, un cerchio che si chiude. C’erano anche Nicole e Alessandro allo stadio: ‘Siamo felici, perché ti vediamo come prima di questi tre anni. Anche io e te, siamo un’altra coppia. Sei un’altra persona. Felice, finalmente’. Senza di loro e senza i miei genitori non ce l’avrei mai fatta. In fondo è stato solo un gol. Per me è stata una liberazione. Ne avevo proprio bisogno. Più dell’ossigeno».