2015
Un posto in fondo al cuore
La storia di Agostino Di Bartolomei, esempio di calcio razionale e etico
L’Uomo in più di Paolo Sorrentino si apre con il Molosso che entra negli spogliatoi e si infuria a fine primo tempo con i suoi giocatori. Si toglie l’orologio, si dà un’aggiustatina alla camicia e comincia a sbraitare contro i calciatori in maniera piuttosto veemente e con una voce rauca e graffiante. Alla fine della sua filippica il Molosso viene interrotto da Antonio Pisapia, il quale si toglie di bocca la chewing-gum – mentre la telecamera si allarga si vede la fascia di capitano al suo braccio – e prova a dare indicazioni tattiche, senza perdere mai la calma e la sicurezza. Il Molosso allora non ci vede più, non è più concentrato e smarrisce il senno mentre Pisapia rientra in campo sempre placido e convinto. Quell’Antonio Pisapia in realtà è una finzione, è un artificio, non è mai esistito un giocatore del genere: un semplice ma riuscitissimo personaggio cinematografico che a prima vista sembra essere uscito dalla geniale mente di Sorrentino. E invece no, perché dietro allo sguardo brutale e e al tempo stesso sia quieto che triste di Andrea Renzi c’è un calciatore che è esistito davvero. Uno che da capitano aveva guidato la sua squadra, la Roma, a vincere la Serie A e a giocarsi il titolo di campione d’Europa, perso in una serata troppo brutta e troppo malinconica. Un giocatore semplice ma enorme, che faceva del giocare a calcio con intelligenza una virtù ineguagliabile. Un uomo sicuro ma fragile, schiacciato dal mondo del calcio a cui aveva dato tanto e ricevuto meno della metà. In poche parole, Agostino Di Bartolomei.
DIBA – È quasi impossibile riuscire a descrivere cosa Agostino Di Bartolomei è stato per la Roma perché non si è trattato di un condottiero o di un capitano, della Roma Di Bartolomei è stato il battito del cuore, il respiro emotivo e forse anche qualcosa di più La Roma Di Bartolomei l’aveva nel sangue, un sangue che non ribolliva mai e lasciava sempre spazio a una razionalità disarmante per un calciatore. Predicava semplicità, spargeva modestia, otteneva rispetto. Di Bartolomei era quello che si poteva considerare un leader silenzioso, sempre riguardoso nei confronti dei compagni e da essi contraccambiato per il suo fare quasi da fratello maggiore. Anche se poi in realtà nel calcio non amava molte persone e, come era solito dire, i suoi veri amici erano al di fuori del pallone. Il calcio era spietato, è spietato, e non aveva tempo per venire incontro a un centrocampista appassionato di letteratura. Di Bartolomei è stato uno dei tanti re di Roma, tra i calciatori però è stato il più dimenticato ma non dai tifosi, che ancora hanno il viso solcato da lacrime al suo solo ricordo, bensì, ahinoi, da un mondo come quello calcistico che non lasciava spazio a persone così imperturbabili. Eppure a Roma non lo amavano, pensavano fosse arrogante quando era in realtà solamente introverso, lo vedevano come scarsamente portato alla lotta e Ago fu costretto a lasciare il posto a Ciccio Cordova e fare un anno di purgatorio a Vicenza. Il tempo ha dato ragione a Diba, sempre così serio e rigoroso. «Io penso che il calcio è un gioco e tu sei una persona fondamentalmente triste» dirà il presidente a Pisapia ne L’Uomo in Più.
LIBERO – Di Bartolomei è nato a Roma in uno dei quartieri più romanisti e per la Roma ha dato tutto. Escluso il prestito al Lanerossi Vicenza in Serie B, Diba ha sempre giocato nella Roma fino al 1984 quando – dopo una partita che era meglio dimenticare – accettò la corte del Milan, lo stesso Milan che aveva provato a prenderlo quando aveva poco più di tredici anni, un’età in cui lasciare casa propria non è semplice. Trecentootto partite e sessantasette gol, il tutto condito da una leadership insuperabile e da un modo di indossare la maglietta della Roma quasi come se l’avesse sempre addosso, sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro. Fu prima superbo costruttore di gioco, capace di trovare compagni e pertugi anche là dove compagni e pertugi sembravano non esserci. Fu anche finalizzatore, con le sue conclusioni precise, soprattutto quelle rasoterra che infiammavano l’Olimpico molto più spesso di quanto possa fare un semplice centrocampista. Sopperiva a una carenza fisica – quasi come tutti i calciatori romani, simboli della Roma, come se ci fosse un filo rosso a collegarli tutti, tecnicamente straordinari ma fisicamente precari – con un cervello più grosso degli altri e un cuore infinito, sempre vicino ai pensieri. Proprio i pensieri fluivano pazzi mentre Diba aveva il pallone tra i piedi, come in un romanzo russo: più avanti degli altri nonostante gli altri sembrassero più forti, e invece no perché Ago era Ago e la sua velocità stava nella testa prima che nelle gambe. Fu anche libero, alla tedesca come si diceva all’epoca. Silenzioso anche in quel ruolo ma ugualmente autoritario, un po’ come Beckenbauer e come farà anche Matthaus anni avanti. Un regista in tutti i sensi, schiacciato tatticamente dalla nascita del calcio fatto di pressing e costretto a lasciare la Roma per l’arrivo di Eriksson, uno che di corsa ne chiedeva tanta.
IL CUORE – La Roma la lasciò per andare al Milan. La lasciò dopo un’epopea che negli ultimi due anni aveva toccato il punto massimo senza però trovarsi di fronte a un lieto fine. Con l’amato Nils Liedholm – un tecnico che gli assomigliava per carisma e loquacità – aveva vinto lo Scudetto 1982-83 alla fine di un duello con la rivale di sempre, la Juventus. Poi nel 1984 ebbe pure la chance di togliersi la soddisfazione più grande, vale a dire portare la Roma sul tetto d’Europa, ma non andò come tutti speravano e qualcosa si incrinò irrimediabilmente. Il 30 maggio 1984 più di mezza Roma si trovava all’Olimpico o a vedere la televisione per tifare la Roma, impegnata in finale di Coppa dei Campioni con il Liverpool dopo aver vinto una semifinale pazzesca e storica contro il Dundee in rimonta. L’altra metà di Roma era ugualmente alla tv, ma a gufare i giallorossi in una serata in cui la caotica metropoli era diventata un tranquillo paese senza traffico. La maglia bianca di Di Bartolomei, il suo sguardo dritto e aperto nel futuro, la solita tenacia di Ago, non bastarono alla Roma per evitare la più cocente delle delusioni. Si vedeva già dal nervosismo di Liedholm che non sarebbe stata la serata perfetta: segnò Neal al tredicesimo dopo un rimpallo clamoroso, e anche lì qualcuno avrebbe dovuto capire che la fortuna non girava dalla parte giusta. Ci pensò Pruzzo a pareggiare a fine primo tempo, Roma esplose dopo il suo colpo di testa e il peggio sembrava passato. Quasi un’ora e mezzo dopo Bruce Grobbelaar danzò sulla linea di porta e mise pressione a Conti e Graziani, i quali spararono in curva i rigori che avrebbero dato una storica coppa alla Roma. Falcao quel rigore si rifiutò di calciarlo, Di Bartolomei no e lo piazzò in porta di potenza con la sua solita brevissima rincorsa. Diba non perdonò mai al brasiliano il gran rifiuto e terminò la sua carriera giallorossa con la più brutta sconfitta della sua vita.
SMITH AND WESSON – Passò al Milan e lì trovò di nuovo Liedholm che ormai lo aveva indietreggiato nel ruolo di libero. Anche in rossonero seppe farsi voler bene, perché era impossibile dar contro a un uomo speciale prima che a un calciatore: organizzava cene per fare gruppo, dava consigli ai ragazzi che stavano emergendo dal vivaio rossonero e giocava per la squadra. Non dimenticò la Roma e il trattamento che gli era stato riservato, purtroppo. Segnò il più classico dei gol dell’ex ed esultò smodatamente, pagando dazio al ritorno dopo un contrasto con Conti: vecchie ruggini con Graziani vennero a galla e la partita degenerò in una rissa, con l’Olimpico ancora una volta contro il suo Capitano. Il calcio ha la memoria corta e per uno come Di Bartolomei l’impressione era che nessuno mai lo avesse capito o conosciuto. Dopo le annate al Milan scese al Cesena in Serie B e poi alla Salernitana in C stabilendosi a San Marco, vicino a Castellabate nel Cilento, paese di origine della moglie. Fece in tempo anche a far esonerare un allenatore a Salerno perché lo mandava in panchina e lui però la rifiutava preferendo la tribuna, salvo poi tornare in campo e conquistare la Serie B nella sua ultima stagione 1989-90. Attaccati gli scarpini al chiodo, provò a diventare dirigente e cominciò a lavorare coi ragazzi creando una scuola calcio, la sua grande passione. Provò a trasmettere la sua voglia di giocare al pallone ai ragazzi delle successive generazioni, cercò di inculcare dei valori e di far passare ai più piccoli l’immagine di un calcio etico lontano dagli stereotipi pallonari. Ci riuscì, ma solo in parte perché un altro 30 maggio si mise di mezzo. Era il 1984 e Ago si svegliò prima della moglie, andò in veranda ancora in pigiama dopo aver preso la Smith & Wesson e si sparò a bruciapelo un colpo al petto morendo sul colpo, lasciato solo da un mondo in cui era stato protagonista ma che non aveva saputo apprezzarlo. Gli ex compagni, gli ex allenatori, gli ex dirigenti spesero belle parole per lui consapevoli che ormai era troppo tardi. I giornali sportivi italiani il 1 giugno 1994 parlarono della Roma che vince il Memorial Calleri con il lutto al braccio per Diba, dello striscione della Curva Sud “Niente parole… solo un posto in fondo al cuore. Ciao Ago” e anche di un certo Totti, protagonista con la Primavera con una tripletta di gol e di assist. E tutto ricominciò.