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Buon compleanno a… Giampaolo Pazzini
Oggi Giampaolo Pazzini compie 39 anni. Da calciatore è diventato opinionista Tv su Dazn per commentare la Serie A
Oggi Giampaolo Pazzini compie 39 anni. In qualche spiaggia d’Italia o anche più in là, magari si parlerà di lui. Immaginate la classica discussione da bagnasciuga, con appassionati di calcio che si infervorano in discussioni inerenti la passione che prende tutti. Si parte dalla minaccia araba e dei suoi petrodollari che ad avercene; si prosegue sullo stato del calcio italiano, tra catastrofisti esasperati dal non avere più visto gli azzurri ai Mondiali e convinti assertori della rinascita secondo le finaliste (sconfitte) delle coppe europeo; si fa qualche pronostico sul campionato che verrà ed è capace che spunta qualche scommessa; infine, ecco l’allarme sulla crisi dei nostri attaccanti: ma che fine hanno fatto i centravanti di una volta. E puntuale, ecco chi ne fa il nome: ma ve lo ricordate Giampaolo Pazzini? Oggi sarebbe un titolarissimo quasi ovunque. Nessuno, visto che stiamo parlando di appassionati, pronuncerebbe l’inesorabile «Ma che fine ha fatto?»: il Pazzo lo si vede, fa il commentatore su Dazn, José Mourinho lo ha persino ringraziato pubblicamente come l’agente segreto del suo anno d’oro, quando giocava con la Sampdoria: «Pazzini mi ha aiutato a vincere il Triplete con quella doppietta contro la Roma con cui li abbiamo superati. Non ha mai giocato per me, ma è stato importante per la mia carriera». E, magari, prima o poi, lo ritroveremo in prima fila, al pari di altri della sua generazione, a decidere l’identità di una squadra o a determinare la fortuna di questo o quel giocatore, in qualità di direttore sportivo o di allenatore (ha fatto gli esami per entrambi).
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Quando ha smesso la sua infinita carriera, avviata nel 2003 e chiusa nel 2020, con estrema sincerità Giampaolo l’ha definita «pazzesca». Immediate le motivazioni: «Ho giocato con tanti campioni, in top club, la Champions, i Mondiali, ho fatto 115 gol in A. Per me ogni gol è come un figlio. Che voto mi darei? Direi 8». In quella lunga e approfondita intervista a La Gazzetta dello Sport, si divertì a fornire una sintesi di ogni tappa del suo percorso:«Atalanta? Preso da bambino e portato in prima squadra. Grande riconoscenza. Fiorentina? La mia prima big. Forse non ero ancora maturo per una realtà così importante. Sampdoria? L’alchimia perfetta. Qualcosa di magico. Inter? La squadra più forte in cui ho giocato. I compagni erano macchine spaventose. Milan? Impressionante organizzazione per ogni singolo giocatore. É da cose come queste che capisci perché hanno vinto così tanto. Levante? Esperienza fantastica. Il calcio è gioia, la partita una festa. Verona? Un legame fortissimo da subito con la città e i tifosi. Esserne stato capitano è un grande orgoglio». Meglio non si sarebbe potuto dire. Da aggiungere c’è che ogni tanto, nel tratto finale del percorso, era divertente vedere come uscisse fuori che era protagonista di qualche classifica speciale, come quella relativa ai rigori calciati.
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Oppure, che tante tappe avevano anche determinato altrettante opzioni possibili, deviazioni nell’itinerario che poi non erano state prese. Spesso, ad esempio, si è parlato di Juventus, a maggio ragione quando a Torino si è trapiantata in dirigenza la coppia Marotta-Paratici che a Genova aveva apprezzato il giocatore e il ragazzo, di una cordialità senza eguali. Oppure tutte le volte che si è profilata la strada inglese: un po’ a chiudere il cerchio aperto con la memorabile tripletta a Wembley con l’Under 21; più semplicemente, a mettere a verifica le sue attitudini nel gioco aereo in un calcio che ancora lo sa esaltare: «Ho avuto qualche possibilità, però il trasferimento non si è mai concretizzato. Quando c’era l’opportunità ero alla Sampdoria, poi all’Inter e al Milan. È capitato in quegli anni lì. Poi sono andato nel campionato spagnolo, forse non proprio adatto alle mie caratteristiche».
In ogni storia, se vogliamo, c’è un aspetto paradossale, uno scarto improvviso, un grumo d’assurdità. Per il Pazzo è stato la Liga, patria del falso nueve, da lui definito senza mezzo termini «la morte delle prime punte», cioè esattamente di quelli come lui.
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Eppure anche lì, un segno lo ha lasciato. Nella gara del suo esordio, Levante-Real Madrid, è andato in rete, di destro, a tu per tu col portiere. In panchina, a scuotere la testa, in uno dei quelle espressioni di perplessità che non faceva nulla per nascondere, un Cristiano Ronaldo visibilmente arrabbiato.