2015
Paolo Pulici, come un ciclone d’amore granata
«Il Tremendismo nasce al Filadelfia: lì venivano a giudicarti i pensionati che avevano visto giocare il Grande Torino…»
È una bella mattina di fine gennaio, c’è il sole e ci troviamo a Trezzo sull’Adda, puro hinterland lombardo. Bergamo è davvero ad un passo mentre Milano, con tutto il caos dei suoi cantieri febbricitanti di Expo, è leggermente poco più in là. A Trezzo dicono che ci sia uno dei migliori locali del Nord Italia dove si fa musica dal vivo (il Live, appunto), un posto dove periodicamente passano le rockstar. Sarà, ma la mia “rockstar” mi attende ora volgendomi la schiena e con lo sguardo fisso sul prato verde della gloriosa Tritium Calcio 1908. Chissà a cosa pensa. Chissà se gli girano. D’altronde a Trezzo il calcio dei “grandi” è improvvisamente sparito dalla scorsa estate (non è questa la sede adatta per sviscerare l’intricata situazione), ma il suo settore giovanile resiste bello fiero. Anche e soprattutto per merito di Paolo Pulici, classe 1950 e monumento granata tuttora lucidissimo alla vista, che qui lavora dal lontano 1990, periodo di notti magiche. Quest’anno cadranno le fatidiche nozze d’argento, ma Pupi tende a smitizzare: «Si vede che non mi sono ancora stufato di asciugare nasi o insegnare ai miei allievi (che vanno dai 5 ai 7 anni, NDR) come si allacciano correttamente le scarpe. Scherzi a parte, questo è l’unico calcio puro nel quale mi piace ancora mettermi alla prova giorno dopo giorno. L’altro – i miei 172 gol col Torino, le tre vittorie nella classifica dei capocannonieri, lo scudetto del ’76, la Coppa Italia del ’71 ecc – appartiene ormai ad un’altra vita». Già, ma vallo a spiegare a tutti a quei tifosi granata che alla figura di Puliciclone rivolgono quotidianamente la loro bella preghierina. Affinché la memoria sia conservata e il Toro abbia sempre quella rabbia sospesa magicamente tra il colbacco di Giagnoni, la disperazione di Combin che fa tripletta alla Juve (qualche giorno dopo il funerale di Gigi Meroni) e il qui presente Pulici che una volta segnò di testa veleggiando con tutto il corpo a 30 centimetri da terra. L’avversario era il Cesena e la partita (finita 1-1) fu quella che consegnò al Torino il settimo scudetto della sua storia il 16 maggio del 1976. L’ultimo tricolore fino ad oggi. Quello che Gigi Radice non riuscì nemmeno a festeggiare in diretta perché, quel giorno, ci teneva a vincere 15 match su 15 di fronte alla Maratona. Coi romagnoli, mannaggia, si fermò “solamente” a 14. Storie da Toro, in definitiva.
Com’è successo che uno come Paolo Pulici si è ritrovato ad allenare prima i grandi (i tuoi anni da “vice” a Piacenza) e poi da allora solo i piccini?
«In pratica Titta Rota (classe 1932 e storico mister piacentino, NDR) mi chiamò nel 1986 per propormi un paio di stagioni ancora da calciatore professionista. Solo che quel suo Piacenza sguazzava in C2 ed io non me la sentivo di fare un affronto simile ai tifosi del Torino: passi per gli anni di Udine e Firenze dove giocavo ancora in massima serie (e segnavo pure), ma la C2… Quindi decisi di affiancarlo in panchina.»
All’inizio le cose procedono bene…
«Molto bene visto che nel giro di qualche anno passiamo dalla C2 alla serie B. Solo che una volta arrivo al campo di allenamento e vedo due giocatori biancorossi che se le stanno dando di santa ragione. Torno a casa sconvolto, passo la notte insonne e infine, il giorno dopo, decido di multarli entrambi. Mi ero fatto un mucchio di scrupoli prima di arrivare a quella mossa punitiva e sai cosa mi risponde uno di loro? ‘Fai pure, dammi la tua bella multa del ca**o tanto io guadagno dieci volte di più!’. E lì ho capito una volta per tutte che quell’ ambiente non faceva più per me, che il calcio professionistico – nel frattempo – era cambiato in peggio. L’opzione era appendere al muro uno di quei mocciosi viziati oppure tornare a respirare aria pulita…»
Cosa temi per questi bambini dai cinque ai sette anni (la categoria che attualmenti alleni) quando toccherà anche a loro entrare nel calcio “dei grandi”?
«Che smettano appunto di fare i bambini. Che qualcuno, per insegnarli le cose, smetta improvvisamente di farli divertire. Che diventino troppo tattici nell’approccio al gioco. Perché, parliamoci chiaro, delle scuole-calcio si dice tutto e il contrario di tutto, ma al momento restano gli unici luoghi dove i bambini possano tranquillamente giocare al pallone. Vai in strada e ti travolgono le auto; tiri due calci nel cortile di un condominio e qualcuno allerta subito indignato l’amministratore… Le scuole-calcio servono, ma non siamo a Coverciano qui. Il divertimento, la gioia e l’insegnamento ludico devono sempre restare gli obbiettivi principali. Perché se un bambino sai farlo prima ridere, ti assicuro che poi impara meglio.»
Noto che sei molto critico verso i professionisti attuali. Cos’è che avevate voi di diverso negli anni ’70? Eravate forse più “poveri”, senza sponsor e televisioni, e quindi maggiormente per bene?
«Ai miei tempi c’era il rispetto. Se incontravi Ferrini (Giorgio: storico capitano granata scomparso drammaticamente nel 1976, NDR) al Filadelfia, speravi solo che si accorgesse di te e ti facesse ogni tanto un minuscolo complimento. Ora si dà tutto più per scontato, le pressioni sono aumentate e poi ci stanno sempre i tifosi ‘che rompono i coglioni per una foto o un saluto mentre io voglio solo tornarmene a casa sgommando col mio fuoristrada’. Ragionano così, i calciatori d’oggi. Dimenticandosi che senza i tifosi non sarebbero niente. Assolutamente niente.»
Si dice però che questo calcio sia più avvincente, quasi una materializzazione reale della Playstation, mentre il vostro fosse un football lento e prevedibile…
«Lento? Ma se il Torino di Gigi Radice correva come la Grande Olanda degli anni ’70! A parte che eravamo più bravi tecnicamente (io ad esempio calciavo sia di destro che di sinitro…), il dato ecclatante comunque era un altro: il mio Toro tirava in porta almeno 70/80 volte a partita contro le 10 striminzite conclusioni odierne. Questo cosa significa? Che per tirare così tanto in porta, la velocità era un nostro requisito imprescindibile. Certo, noi non facevamo possesso-palla, ma aggredivamo l’uomo. Il tanto mitizzato possesso-palla di oggi noi lo chiamavamo spregiativamente melina. E le rare volte che l’attuavamo, sapessi quanti fischi dalle tribune…»
La grandezza del Toro di Gigi Radice era che giocava sempre e costantemente con l’uomo in più, vero?
«Esatto. Noi avevamo Vittorio Caporale che faceva il libero moderno. Quando la palla c’e l’avevamo noi oppure la perdevamo lungo il limite dell’area avversaria, ecco che io o Ciccio (Graziani, NDR) alzavamo il braccio e lì partiva il Tremendismo. Pressing puro all’olandese a cui partecipavano tutti: i due Sala , Zaccarelli, Salvadori ecc. Caporale si sganciava ed ecco che si giocava con l’uomo in più. Ed ovviamente, se giocavamo con la Juventus, non portavamo pressing su Scirea perché Gai con una finta ti metteva a sedere, lasciandoti scoperto. Andavamo in massa su Morini o Furino perché era più semplice che loro sparassero via il pallone. Regalandocelo di conseguenza a noi…»
Il Tremendismo granata nasce geneticamente dalla tua grinta? Tu, quando vestivi quella leggendaria maglia, correvi come un pazzo, imprecavi al cielo, avevi gli occhi iniettati di sangue Toro…
«No, il Tremendismo traspirava dalle pareti del Filadelfia, inteso come stadio e complesso di spogliatoi. Ci allenavamo tutti là, dai ragazzini alla prima squadra, ed avevamo frotte di pensionati che ogni pomeriggio venivano a vederci. Perché, ricordatelo sempre, il vero torinese è granata: la Juve è la fidanzata d’Italia, acchiappa tifosi ovunque, ma ben pochi nella cerchia cittadina. Anche oggi.»
Torniamo ai pensionati sabaudi.
«Quella era gente con cui non potevi scherzare: loro avevano visto dal vivo il Grande Torino e quindi si portavano appresso la memoria storica. Magari un giorno ti dicevano: ‘Sai, tu mi ricordi Gabetto‘, ‘Il tuo stile in campo ha qualcosa di Loik‘, ‘Ti avrei visto bene assieme a Menti‘ e tu immediatamente viaggiavi a tre metri da terra. Lo scatto in più, durante la partita, lo facevi sempre. Per rispetto verso gli Angeli di Superga e per non deludere chi ti osservava in diretta.»
Il 16 maggio 1976 il Toro vince il suo settimo scudetto, il primo e l’ultimo dalla tremenda tragedia del 4 maggio 1949. Il giorno dopo vorreste salire in pellegrinaggio a Superga, con tutta la squadra al gran completo, ma non ci riusciste. Come mai?
«E chi ce l’avrebbe mai fatta? Noi eravamo in pullman, ma contemporaneamente almeno 100mila persone stavano andando verso la Basilica con la fiaccola in una mano e la bandiera granata nell’altra. La polizia ci disse di lasciar perdere e noi vedemmo quello spettacolo dal basso. Un panorama da levare il fiato. Il sindaco d’allora, Diego Novelli, disse alla stampa che una festa popolare così bella l’aveva vista solo in occasione della Liberazione… Il fatto è che la città era letteralmente esplosa dopo 27 lunghi anni di attesa. Poteva già succedere nel 1972, ma lì accaddero delle cose alquanto strane: ci annullarono due gol regolari. Uno a Genova con la Sampdoria e un altro a San Siro col Milan. E lo scudetto, in quel caso, indovina a chi andò…»
Temo di immaginarlo. Senti Pupi, la tua idea di giocare con la maglia numero 11 fu una sorta di tributo a Gigi Riva?
«Gigi era l’esempio: per Aldo Agroppi io ero perfino meglio di lui, ma in realtà Riva è stato l’attaccante per antonomasia del calcio italiano. Quindi un po’ per quello, un pò perché l’11 era l’ala sinistra, quello che si faceva il mazzo in campo, che doveva sputare sangue se no poi negli spogliatoi volavano le scarpe. Colui che – per ragioni gerarchiche – usciva per ultimo dal tunnel degli spogliatoi pur di lasciare la ribalta ad altri.»
Una volta, uscendo per ultimo in un derby, camminasti su di un bandierone bianconero posto dalla curva juventina sulla pista d’atletica del Comunale. Apriti Cielo…
«E perché mai? Io ho solo rispettato la legge italiana: dovevo attraversare la strada e sono passato sulle strisce! (risate)»
Quand’è che cala (se non addirittura scompare) il Tremendismo nel Torino degli anni successivi?
«Semplice: quando in società sono cominciati ad entrare personaggi sempre meno innamorati del Toro e sempre più affamati di potere e popolarità. E come prima cosa hanno cominciato a sminuire il valore del settore giovanile e a separare gli allenamenti tra prima squadra e ragazzi della Primavera. Quello che per Pianelli (Orfeo, il presidente scudettato del ’76, NDR) sarebbe stato una bestemmia, al giorno d’oggi è ordinaria amministrazione»
Non dico con le precedenti sciagurate proprietà, ma c’entrerebbe qualcosa uno come Puliciclone con l’attuale patron Urbano Cairo? Te la sentiresti di lavorare nell’organigramma granata oggi?
«Io voglio bene al Toro, ma non sono nato ieri. Il Torino è un gran bel giocattolo domenicale? Bene, allora mi deve divertire sempre e comunque. Se so con mesi d’anticipo che Ciro Immobile deve andare via, allora lo rimpiazzo con un altro bomber della sua portata. Non compro – con tutto il rispetto – gente come Amauri, Quagliarella e Maxi Lopez che in una stagione riescono a farmi appena quindici gol in tre… Le statistiche, in questo caso, non mentono. (ad onor del vero va detto che l’intervista è stata realizzata prima della tripletta di Fabio Quagliarella contro la Sampdoria, NDR)»
Chiarissimo. Quindi un ottavo scudetto granata, ragionando così, non arriverà mai più?
«Se il tuo obbiettivo di anno in anno non è quello di rinforzare la squadra investendo sui giovani e su qualche campione ad hoc, l’impresa del 1976 sopravviverà ancora per moltissimo tempo a venire.»
Ti brucia non aver concluso la carriera nel Toro? Nel 1982, infatti, Orfeo Pianelli cedette la mano, ti regalò il cartellino (fu di parola, insomma), ma la nuova società di Sergio Rossi non ti prese in considerazione…
«Dissero che ero vecchio, che volevano ringiovanire l’ambiente e comprarono Franco Selvaggi che quell’anno aveva già quasi 30 anni… (sospira) E la stagione in cui io giocai ad Udine lo stesso Selvaggi segnò comunque meno gol del sottoscritto. Amen, in Friuli mi sono trovato benissimo. Poi andai a Firenze a fare la ‘chioccia’ per Paolo Monelli e Daniele Massaro, allora giovanissimi. Solo che anche lì ogni tanto veniva fuori quella vocina antipatica: ‘Guardalo, è vecchio, non segna più’. Sono vecchio a 35 anni?! Benissimo, allora mi ritiro.»
E la Nazionale? Due mondiali in bacheca (Germania 1974 ed Argentina 1978) e neanche un minuto in campo. Nonostante tu abbia vinto per tre volte il titolo di capocannoniere italiano (1973, 1975 e 1976). Bella fregatura, anche lì.
«Peggio: in quei due campionati del mondo andai sempre in tribuna, manco in panchina mi volevano… Nel ’74 me ne feci una ragione perché davanti a me avevo Riva e Boninsegna, ma nel ’78 ero una bestia scatenata, in allenamento appena la toccavo la buttavo sempre dentro, la stampa insisteva con Enzo Bearzot per farmi giocare… Niente, il titolare restava sempre e comunque Roberto Bettega anche se la squadra, partita dopo partita, era sempre più logora e spompata. Il CT si spacciava per cuore Toro, ma poi faceva sempre giocare gli juventini e la cosa onestamente non mi è mai andata giù. Tant’è che dopo l’Argentina abbandonai di mia spontanea volontà il giro della Nazionale»
Il tuo ennesimo esempio di coerenza pagato a caro prezzo.
«Il fatto è che in Italia si sa come vanno le cose, no? Da noi comanda sempre il più forte, quello meglio introdotto, non quello più meritevole…»
La chiudiamo qui, Pupi?
«Sì, volentieri. Anche perchè ho parlato a lungo, forse troppo, ma io sono fatto così… E poi se tanta gente continua a volermi bene, a quarant’anni dallo scudetto granata, vuol dire che qualcosa di buono in carriera l’ho fatto anch’io.»
E se ne va senza aggiungere una parola, se non di gentile commiato. Nel parcheggio dell’anti-stadio della Tritium è rimasta una sola macchina parcheggiata, una bella Familiare per la cronaca. Quella di Paolino Pulici. La tinta? Granata, naturalmente.
Rubrica a cura di Simone Sacco (per comunicare: calciototale75@gmail.com)
Le foto di Paolo Pulici sono state gentilmente scattate da Cecilia Gatto.