2015
Optì Pobà, quando si scelse di non cambiare
La vicenda Lotito alle radici dello status quo del nostro calcio. Ma non è tutto da buttare, anzi.
Superfluo riportare i pezzi della telefonata tra il presidente della Lazio Claudio Lotito ed il dirigente dell’Ischia Isolaverde – realtà attualmente militante in Lega Pro – Pino Iodice, episodio che scaglia un’altra violenta pedata al nostro calcio e palesa ulteriormente le crepe di un sistema. Un modus vivendi che non può andare giù a chi alla parola pallone associa in rima baciata la parola passione.
QUANDO NON SI VOLLE CAMBIARE – Non c’è stato momento migliore nel passato del nostro calcio per azzerare tutto e stravolgere il volto dei suoi vertici dirigenziali: il post Brasile 2014, fallimento mondiale della nostra selezione nazionale che faceva seguito a quanto egualmente accaduto quattro anni prima in Sudafrica, si è per cause esplicite designato come l’attimo perfetto. Il carpe diem per antonomasia. Riconoscere la crisi, cambiare e provare a migliorare. Gettare le basi del progresso, anche in nome di risultati non tangibili nel breve periodo ma solidi nel medio. Volti nuovi, con tutti i rischi che gli stessi portano: nulla di tutto ciò è invece accaduto con la stragrande maggioranza dei club italiani che scelse di dare fiducia a Carlo Tavecchio, nel sistema calcistico italiano da una vita, e con lui a chi di fatto ne aveva caldeggiato la candidatura.
LO STATUS QUO – E’ il paradosso tutto italiano: non c’è uomo nella nostra penisola che non si riempia la bocca della parola cambiamento, ma al momento di voltare realmente pagina resta tutto come un tempo. Quasi per magia. Basti pensare alla politica e ad un esempio che in tal senso calza a pennello: l’attuale Presidente del Consiglio Matteo Renzi, allora nominato il Rottamatore, soltanto due anni fa perse sonoramente le elezioni primarie all’interno del suo partito in favore del collega Pier Luigi Bersani, prima di diventare il leader del 42% delle ultime elezioni europee. Tutto questo per dire cosa? E’ un Paese per vecchi? Forse. La certezza è che fatica a cambiare, da una parte bloccato dalla paura del nuovo e dall’altra perché tanto male poi non sta. Perché alcuni usi e costumi condannati a parole fanno probabilmente parte di un tessuto e di un modo di ragionare oramai intrinseco. E’ questo ovviamente un esempio a cui si fa riferimento per dettagliare le difficoltà che si incontrano in Italia nell’avvicendamento generazionale: la figura di Bersani, che piaccia o meno, è limpida e certamente non se ne può parlare in toni disdicevoli.
COSA RESTA DI BELLO – Con toni decisi si può invece condannare l’arroganza di chi pensa di poter scegliere le promosse di un campionato in base a logiche economiche legate all’attribuzione di diritti tv più cospicui e non al principio cardine ed unico che dovrebbe regolare la fattispecie: la meritocrazia. Ma non facciamo di tutta l’erba un fascio: questo è ancora il nostro giocattolo preferito. Quello che amiamo, che custodisce le nostre passioni esaltandone l’aspetto più puro. Quello dei Vincenzo Montella, che proprio nella conferenza stampa odierna di presentazione alla gara di campionato ricorda con un’invidiabile pulizia d’animo i tempi in cui Eusebio Di Francesco – domani rivale in Sassuolo-Fiorentina – gli prestava qualche spiccio per tirare avanti e non rinunciare al sogno di diventare calciatore. E’ tutto marcio? No, a noi non sembra proprio.