2012
QPR, Julio Cesar: “Inter, quanto ti ho amata…”
QPR JULIO CESAR INTER – Con l’Inter ha vinto tutto quello che c’era da vincere, compreso un fantastico “triplete”: scudetto, Champions League e Coppa Italia, nel 2010. Ha dato l’addio ai colori nerazzurri solo quest’estate, ma Julio Cesar, resta un idolo dei tifosi interisti.
Improvviso, ad agosto, è arrivato il divorzio dall’Inter per andare ai Queens Park Rangers, in Inghilterra. A Sky Sport, “I Signori del Calcio”, Julio ricorda: “Andare via da Milano è stato per me un momento molto difficile. Sono venuti in mente tutti i momenti passati con la famiglia Inter: il presidente, i compagni di squadra, i tifosi soprattutto. Penso che nella mia carriera di calciatore quelli in nerazzurro sono stati i momenti più belli. L’addio a San Siro? In cinque minuti al centro del campo non è stato facile raccontare sette anni. Ho deciso di leggere la mia lettera, con a fianco il mio figlio, Luigi, per raccontare tutto ciò che ho vissuto in sette anni. Non mi piace ricordare quella sera lì, perché sono uno che si emoziona troppo e troppo facilmente. Ma ricordo il passaggio ‘la maglia che ho onorato, non sarà mai dimenticata’, e lì quando ho letto questa frase, sapevo di essere andato via avendo compiuto il mio dovere. I tifosi mi sono sempre stati vicini, nei momenti belli, ma anche in quelli difficili, che per un portiere capitano: quando si sbaglia una partita o una palla. Loro sono sempre stati al mio fianco. Per quanto riguarda quel che sono diventato, i tifosi interisti sono responsabili di una grande percentuale di ciò. Oggi tutto quello che posso dire del mio addio, è che anche io non l’ho capito molto bene. Non so bene cosa sia successo. La cosa più importante è che io sia andato dal presidente Moratti, abbiamo parlato di tutto quello di cui si doveva parlare, ci siamo chiariti ed è stato un colloquio di 5-10 minuti. Sono andato via sapendo di aver lasciato una porta aperta, questo penso di averlo imparato da piccolo da mia madre“.
Julio Cesar torna indietro nel tempo quindi, agli inizi della sua avventura nerazzurra: “Ero un ragazzo sconosciuto in Europa e l’Inter mi ha aperto le porte di casa sua e mi ha permesso di vincere tanto, di diventare un portiere forte, ecco perchè per me è meglio parlare di queste cose. Dentro mi fa sentire ancora più grande“.
Ma perchè, allora, l’estremo difensore non è rimasto in nerazzurro? “Fare il secondo di Handanovic sarebbe davvero difficile per me, dico la verità. Ho altri obiettivi da raggiungere, come quello di giocare il Mondiale in ‘casa’ nostra, in Brasile e giocando in panchina questo sarebbe diventato più difficile. All’Inter ho detto: ‘Guardate, nel mio contratto non c’è scritto che devo essere titolare, quindi sono disposto a giocarmela con lui’, ma mi hanno chiuso questa porta e mi hanno fatto sapere che non ero più parte dl progetto dell’Inter. Lì ho iniziato a cercare una nuova strada per me e penso di aver trovato una strada bellissima: ora vivo a Londra e gioco nel QPR. Io sono felice e penso lo sia anche l’Inter. Alla fine ho fatto la scelta giusta”.
Con l’Inter, però, il brasiliano ha conquistato il mondo, diventando il numero uno: “Diventare il portiere più forte al mondo, non è mai stato mai un obiettivo vero per me. Io non credo in questi ‘titoli’. Io penso che ci siano tanti portieri bravi, con le loro caratteristiche: io faccio meglio una cosa, Buffon un’altra e Handanovic un’altra ancora. Ogni portiere ha le sue caratteristiche distinte. Ogni calciatore ha i suoi momenti speciali in cui è al top e quando arrivano questi momenti si iniziano a sentire le voci sui migliori portieri al mondo. In Inghilterra dicono che il più forte è Hart, in Spagna Casillas ed in Italia Buffon, possiamo andare avanti all’infinito. Quando inizi ad essere osservato in quest’ottica, le responsabilità crescono molto: un gol preso male può diventare oggetto di critica, la gente si aspetta sempre di più, loro sanno che tu hai già dimostrato la tua forza e vogliono che tu rimanga sempre così. Tutti dicono che arrivare in cima è facile, ma rimanere è più difficile: io non la penso così, restare al top è veramente difficile. Io penso di avere ancora tante cose da raggiungere prima di finire la mia carriera. Dida? E’ un portiere che devo solamente ringraziare. È stato nel Brasile il secondo portiere per due anni. Arrivare in Europa e diventare uno dei più forti, assieme a Taffarel prima, hanno aperto le porte per altri portieri brasiliani. A Dida devo dare tanto di cappello, perché quanto ha fatto in Europa è stato strepitoso“.
Sul rapporto con i suoi allenatori nerazzurri: “Mancini è stato un po’ il mio ‘papà’ in Europa: subito mi ha schierato titolare ed ha dimostrato fiducia nel mio lavoro. Non ho capito bene quello che lui si aspettava da me e mi sono messo in testa che dovevo solamente lavorare e ripagare questa fiducia. Ha fatto una scommessa su di me e penso abbia vinto alla grande (ride, ndr). Mourinho è un personaggio e una persona con cui ho potuto condividere dei momenti importanti, forse i più importanti. Assieme a lui, il primo anno è stato davvero meraviglioso. Il secondo anno è stato un po’ più difficile, abbiamo litigato spesso, ma ho capito che era il suo modo di lavorare e ragionare. È un allenatore che vuole ottenere da te il massimo, in ogni momento. Alla fine, quando eravamo a marzo ed aprile, ho imparato tante belle cose da lui e gli ho detto che avrei parato tutto da quel momento in poi. Lui ti provoca una rabbia dentro, così che vuoi sempre dimostrare di essere il più forte. Ora il Real Madrid ha già vinto la Liga spagnola, tutti corrono come matti. Spreme ogni squadra come un’arancia, lo sempre fa in ogni squadra in cui lavora. Ma è anche uno di quelli che guarda molto avanti. Anche da lui ho tratto tante cose positive“.
Capitolo indimenticabile, quello del “triplete” 2010: “Mi ricordo tante volte a casa, insieme a Maicon, abbiamo visto i video del ‘triplete’, della leggenda, ed ogni volta osservavamo qualcosa di diverso, qualcosa che mancavamo la volta prima. Io piangevo ogni volta, veramente è stato il top. Mi ricordo quando il Barcellona ha vinto i sei trofei in un anno, ed allora con Dejan Stankovic al bar in Pinetina, un giorno, dopo un caffè, leggevamo ‘La Gazzetta dello Sport’ e ricordavamo la stagione del Barça con i sei trofei e lui mi disse: ‘Mamma mia, sei trofei in un anno’, ed io gli risposi: ‘Guarda ‘Deki’, è veramente una cosa spettacolare’, poi dopo il Mondiale vinto gli ridissi: ‘Non saranno sei, ma cinque trofei sono tanta roba!’. Ricordo che poi abbiamo presentato i trofei ai nostri tifosi, non erano sei come per il Barcellona, ma è stato molto bello, forse davvero il massimo per un calciatore“.
Capitolo nazionale: con il Brasile non sempre è andato tutto liscio: “Contro l’Olanda, in Sudafrica non è stato un errore mio: è stato un momento particolare in un’occasione dove mi sono scontrato con un mio compagno. Io sono il primo a fare auto-critica e prendermi le mie responsabilità, ma non penso sia stato un errore mio. È stata un’incomprensione, un errore di tutti e due, ed abbiamo preso gol. Siamo rimasti tutti un po’ sbigottiti, eravamo fiduciosi in partita e non capivamo come potevamo aver preso quel gol; ha cambiato un po’ la storia della partita“.
Cosa ricorda Julio Cesar, della sua carriera? “Di parate più importanti ce ne sono due: quella al Camp Nou contro il Barcellona sul tiro di Messi, una parata davvero molto bella, e poi in finale appena iniziato il secondo tempo quando ero a tu per tu con Müller ed ho fatto una parata con i piedi in un momento importante della partita. Ho pensato subito a Mourinho che mi diceva: ‘Tu devi pensare a fare 1-2 parate in partita, non più’, ed allora là ho tirato un sospiro di sollievo“.
Il futuro, ora, come detto, è inglese: “Dell’Italia mi mancano gli amici ed il cibo, che è davvero il migliore. I campi qui in Inghilterra però sono davvero il massimo. Ho scelto l’Inghilterra anche per imparare l’inglese e lasciarmi tutte le porte aperte. Nel futuro mi vedo ancora nel calcio, ma è ancora presto per pensare dove. In Brasile ho la mia famiglia e quella di mia moglie, che ci mancano tanto, in Italia ho passato sette anni della mia vita e mi sono fatto degli amici veri“.