2014
Sparuti incostanti sprazzi di bellezza
Storia di Domenico Morfeo: trequartista eccezionale, nel vero senso della parola
MORFEO – Una normale partita di calcio è il manifesto della consuetudine. Il concetto stesso di normalità fossilizza il gioco in attacchi e difese prevedibili e lo riduce a un mero scontro fra ventidue individui. Seguendo questo ragionamento possiamo supporre che tale normalità sia la perfezione: nessun errore, bravura equamente divisa tra i contendenti, pareggio. A volte però questa continuità per fortuna viene interrotta, il flusso è stoppato da un evento casuale e inconsueto: un giocatore con la maglia numero dieci si discosta dalla dimensione spazio-temporale degli altri e riesce a pensare ed agire fuori dagli schemi. Interrompe la serie di linee geometriche fin lì disegnate con ripetitiva cura dai compagni e ne inventa una nuova, dando il via a una rivoluzione lampo, giusto il tempo di un colpo di tacco o di una punizione all’incrocio dei pali. Domenico Morfeo era uno di questi numeri dieci, capace in un istante di creare gesti di rara bellezza. Duravano poco quei momenti, erano saltuari, giusto per farsi beffa della monotonia e dello status quo.
MORFEO E’ USCITO DAL GRUPPO – Nel maggio del 1996, a soli 20 anni, Morfeo ha già segnato quattordici gol in A, ha litigato con almeno due allenatori ed è considerato l’astro nascente del calcio italiano. A Barcellona nella finale tra Italia e Spagna è proprio lui a diventare l’eccezione, il punto di discontinuità: finale degli Europei Under 21, pareggio. Il penalty di Morfeo dopo l’errore di Raul è la rottura della normalità, il suo gol dà la vittoria agli azzurri di Cesare Maldini e lancia il giovane abruzzese dell’Atalanta nell’Olimpo del calcio mondiale. Negli anni a Bergamo ha incantato per la sua classe innata ma anche per i lunghi momenti di pausa, quasi come se dovesse ricaricarsi nel mezzo della partita. Quando il pallone passava dalle sue parti però partivano gemme, sotto forma di assist o tiri in porta. Prandelli prima e Mondonico poi lo plasmano e lo affiancano a giovani di livello come Lucarelli e Inzaghi, i quali iniziano le loro fortune anche grazie al ricciolo da Pescina. Maradonino lo chiamano, perché come el Pibe de Oro ha baricentro basso ed è mancino e soprattutto perché gioca ad un livello diverso dagli altri, quando vuole. 20 anni e una sola decisione da prendere, rimanere nel limbo dei potenziali campioni o diventare un fenomeno e uscire dal gruppo, come in quegli anni sta facendo Jack Frusciante. Questo è l’unico istante nella carriera di Morfeo in cui non prende una decisione straordinaria, intesa proprio come al di fuori dell’ordinario.
PELLEGRINAGGIO – Dopo Bergamo arriva Firenze, un gran bel salto a fianco di Rui Costa e Batistuta che dapprima gli cedono spazio nel tridente di Malesani e poi fanno lo stesso con l’Edmundo pre-carnascialesco. Nel 1998 il talento Morfeo è già riserva nella Fiorentina e comincia a sbuffare. Perché lui è così, incostante in campo ma soprattutto nei comportamenti, quasi fosse uno Joaquin Phoenix prestato al mondo del pallone: litiga con gli allenatori, non è soddisfatto dei compagni che pure manda in gol con giocate superlative, finisce in panchina e nell’oblio. Da Firenze a Milano, da Milano a Cagliari e infine a Verona. Dal 1998 al 2000 Morfeo fa il suo personale Giro d’Italia, vince uno Scudetto giocando pochissimo e si lascia male praticamente ovunque fino al rendez-vous con Prandelli al Bentegodi. Se si può individuare una prima rinascita, a soli 24 anni, di Morfeo è proprio questa. Il dieci torna a essere dieci, a giocare tra le linee e a romperle quelle linee, quasi fosse in guerra con Mondrian più che con N’Gotty o Padalino. E’ un trequartista, niente di più, agisce in quella zona grigia del campo che oggi non attacca nessuno e da lì tira fuori il coniglio dal cilindro. Con continuità, e anche questa è un’eccezione.
LUCI DELLA RIBALTA – Il momento d’oro finisce, ritorna il buio. Dopo una fortunata parentesi di ritorno a Bergamo con l’amata Atalanta, Morfeo è ancora una volta a Firenze, a una Fiorentina che è fallita ma ancora non lo sa. Morfeo è odiatissimo dai tifosi, che lo accusano di aver dato il là al disfacimento economico dei viola, tant’è che deve indossare la “maglia della vergogna” (una t-shirt bianca sopra la casacca gigliata) quando in realtà, come ammetterà lui stesso, è stato uno dei pochi a non sottoscrivere la messa in mora della Fiorentina. Quell’esperienza però lo turba profondamente e l’approdo all’Inter è soltanto un momento di passaggio prima del gran finale, ancora con Prandelli ma stavolta a Parma. A 27 anni Morfeo ha ancora tutto da dimostrare e lo fa alla stragrande, prima lanciando Gilardino e poi aiutando i ducali a salvarsi con le sue prodezze, un po’ meno estemporanee. A Parma segna, zittisce il pubblico e i detrattori, che sono tanti come lui non manca mai di ripetere nelle sue interviste. E’ uno che tira la carretta, l’età comincia ad avanzare ma la classe è sempre quella, anche se le grandi occasioni ormai sono lontane. La sua carriera, fatta di molte nature morte e di altrettanti schizzi raffinati, si conclude proprio a Parma nel 2008, a poco contano i tira e molla con Corioni al Brescia e quelle quattro partite – con espulsione incorporata – a Cremona in Serie C con Mondonico. A 33 anni Morfeo dice basta, continuerà a giocare nelle categorie minori in Abruzzo ma soprattutto aprirà un negozio di sigarette elettroniche a Sulmona e un ristorante a Parma.
L’INCOGNITA – Per uno che si chiama Morfeo capirete che non doveva essere difficile addormentarsi, e infatti in campo succedeva spesso. Quello che ha lasciato il trequartista nato a Pescina nel 1976 è un patrimonio di perle e di domande: un tiro a giro e un dubbio, una verticalizzazione e un litigio, una finta e un cartellino rosso. Si può andare in doppia cifra a vent’anni e solamente sette stagioni più tardi essere considerato un giocatore finito? Si può, da giocatore finito, salvare una squadra? Ma la vera domanda è: qual è stato il vero Morfeo? Abbiamo accennato alla dicotomia consuetudine – inconsuetudine: quel Morfeo che incantava tutti con i suoi passaggi filtranti e il sinistro vellutato era la normalità oppure la ribellione occasionale alla monotonia calcistica? Purtroppo i numeri incombono a gettare una luce immeritata su uno dei genii calcistici degli anni Novanta-Duemila, vissuto in un periodo in cui di numeri dieci italiani se ne trovavano pure troppi. Su trecento gare circa, quasi metà sono passate a sonnecchiare, mentre le altre a manifestare la sua superiorità tecnica. La differenza sostanziale è sempre la solita: essere un talento e avere talento. La classe si ha per predisposizione genetica, il talento per volontà e in questa Morfeo scarseggiava. Un numero dieci superbo e altezzoso che il calcio non ha capito, una sorta di ribelle che ha provato a cambiare il mondo ma che ha smesso prima che il mondo potesse cambiare lui, ma soprattutto un grande punto interrogativo. Questo ci rimane di Domenico Morfeo.