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2016

Il valore della panchina Juve

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Allegri, Conte e le scelte sulle… ‘riserve’

La premessa è doverosa: non c’è squadra disegnata d’estate che non presenti un andamento sorprendente nel corso della stagione. Perciò, per essere espliciti, esercitarsi sulla titolarità di 11 giocatori è un esercizio scontato da parte dei giornalisti ma nella realtà rappresenta poco più di un gioco, un esercizio teorico. Credo che gli stessi allenatori non ne tengano conto perché se pensano al loro gruppo in termini ristretti o con gerarchie fisse o scarsamente modificabili commettono un enorme errore di prospettiva. Gli infortuni, i cali di forma, le esplosioni improvvise, i cambi tattici: tutto concorre a far saltare il quadro ipotetico ed è un bene che sia così perché con le rose ipertrofiche del calcio contemporaneo è proprio nel sapiente utilizzo delle risorse che si può fare la differenza. Soprattutto in Italia, dove ogni esclusione dalla formazione di partenza determina sempre un dibattito esagerato, come se fosse una bocciatura anche quando magari è una normalissima pausa. Si veda ogni volta che in queste ultime stagioni Paul Pogba è stato messo in panchina nella Juventus. Il rumore è stato sempre notevole e giusto uno tranquillo come Allegri c’è voluto per smorzare gli effetti mediatici della scelta. Ma non è tutta colpa dei giornalisti, per la verità. Credo che in certi toni ci sia un desiderio recondito che nessuno nel nostro campionato può coltivare: l’idea di possedere un nucleo così forte da non avere ricambi all’altezza di un’eccellenza così elevata. Sul tipo del Barcellona di questi anni, per intenderci, che pur avendo una buona panchina ha titolari così decisivi che la formulazione di chi scende in campo è stata il più delle volte una filastrocca da mandare a memoria.

 

Il dibattito di questi giorni attorno alla Juventus riguarda molto la cosiddetta competitività interna. Molto forte quasi in tutti i reparti, a partire dalla difesa, dove alla BBC si sono aggiunti nomi che si fa fatica davvero a considerare giocatori importanti destinati alla panchina. Non c’è solo il ballottaggio Lichtsteiner-Dani Alves nell’agenda, visto che lo svizzero per tutto il quinquennio ha sempre collezionato molte presenze e ha ancora risorse di fiato a sufficienza e una mentalità combattiva che pensare a una sua uscita di scena non è solo irrispettoso, è totalmente irrealistico. Per quanto si è apprezzato nei primi test amichevoli, Benatia può benissimo avanzare la sua candidatura anche perché ha le capacità tecniche che si richiedono in sede di costruzione. E Rugani non può permettersi d’interrompere bruscamente una crescita che si è registrata nella scorsa stagione di gara in gara.

 

Piuttosto che esercitarsi sul futuro, può essere produttivo fare un bilancio di ciò che è successo nei 5 anni di dominio della Juve. Anche perché sono stati molto diversi gli approcci di Conte e Allegri, che del resto lo sono anche per come intendono la costruzione di una squadra nel corso del tempo: il primo oggettivamente sottoutilizzò alcune seconde linee, salvo esaltare il valore morale delle riserve che riuscivano ad emergere; il secondo invece, ha praticato sempre rotazioni ragionate, dando spazio praticamente a tutti, in parte favorito nel suo primo anno dalla vittoria anticipata del campionato che gli ha permesso di far riposare molti in vista della fase finale di Champions League, mentre nel secondo i tanti infortuni hanno obbligato a rimescolare spesso l’undici di partenza.

 

Ci sono tratti che hanno unito le scelte dei due mister. Ad esempio Simone Padoin, da entrambi utilizzato in diversi ruoli e con una certa continuità, certificata dal rilevante numero d’ingressi in campo. Ma, come succede un po’ a tutti gli allenatori, sono gli attaccanti le principali carte che si buttano sul tavolo come elementi in grado di sparigliare il risultato. Nel primo anno, Conte ebbe a disposizione il talento, il carisma e l’esperienza di Alessandro Del Piero. Il capitano certo non si era pensato ai nastri di partenza come una risorsa aggiuntiva. E tra i suoi tanti meriti accumulati in carriera, non di poco conto fu quello di calarsi nella nuova posizione con la capacità di lasciare un segno importante, a partire dal gol su punizione alla Lazio che fu risolutivo nella corsa scudetto. Fabio Quagliarella è stato l’attaccante che più di ogni altro si è alzato dalla panchina nel triennio Contiano. L’espressione del volto non era mai delle più contente, anche se fecero più notizia alcune uscite che lui accettò malvolentieri. Resta il fatto che anche lui è riuscito a offrire un contributo non banale alle fortune di quel ciclo.

 

Con Allegri il panchinaro risolutivo ha trovato un’espressione internazionale. In entrambe le stagioni è stato Alvaro Morata colui da buttare in mischia, con differenze sostanziali tra un’esperienza e l’altra. Prima il tecnico livornese lo ha voluto studiare, per poi lanciarlo nella mischia al momento buono, facendo di lui l’elemento decisivo nella corsa europea. Lo scorso anno, invece, qualche panchina è stata figlia di un calo di rendimento, oltre che dell’esplosione di Dybala e del funzionamento della coppia con Mandzukic. Rilevanti sono stati anche due apporti utili per il cambio di passo e anche di modulo in certe circostanze: Pereyra nel 2015, Cuadrado nel 2016. Adesso, a leggere social e quant’altro, le aspettative del popolo bianconero convergono soprattutto su Pjaca e in parte anche su Lemina, centrocampista buono per tanti ruoli.

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