Adriano BACCONI: «La vittoria della SPAGNA nasce da lontano, è da bambini che si creano quelli come YAMAL. Vi spiego cos'era la PAURA dell'Italia di SPALLETTI. Il calcio di oggi corre un rischio: la NOIA» ESCLUSIVA (PARTE 1) - Calcio News 24
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Adriano BACCONI: «La vittoria della SPAGNA nasce da lontano, è da bambini che si creano quelli come YAMAL. Vi spiego cos’era la PAURA dell’Italia di SPALLETTI. Il calcio di oggi corre un rischio: la NOIA» ESCLUSIVA (PARTE 1)

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Le parole di Adriano Bacconi in esclusiva a Calcionews24 sugli Europei e lo sviluppo tattico del calcio negli ultimi anni

Allenatore e preparatore atletico professionista, Ceo di MathandSport, Adriano Bacconi ha una lunghissima esperienza nel mondo del calcio. E non credo che sia la nostra amicizia a farmi dire che a vederlo in tv – una piccola parte del suo lavoro – gli italiani abbiano iniziato ad appassionarsi di più alla tattica. L’intervista si articola in due parti. La seconda riguarderà la Serie A che sta nascendo. La prima la potete leggere qui sotto e parte dall’Europeo per fare una ricognizione sullo stato del calcio d’oggi.

Talvolta le grandi manifestazioni tipo Europei o Mondiali ci fanno accorgere di grandi sommovimenti “culturali” nati prima, ma che in una competizione così globale si impongono all’attenzione collettiva Penso al calcio totale: il fenomeno iniziale è stato l’Ajax che collezionava Coppe dei Campioni, poi l’Olanda del 1974. Ti chiedo perciò se è emerso qualcosa di interessante – non necessariamente di grande – e se la Spagna di oggi ha un contenuto di novità rispetto alla filosofia del tiki-taka alla quale ha attinto per anni e anni.

«Partirei dalla considerazione che Germania-Spagna mi è piaciuta tantissimo perché c’erano due squadre che si sono battute per cercare di dominare l’avversario. A tratti la Germania è riuscita anche a farlo, con modelli e stili di gioco diversi. Aggiungo anche la finale, dove si è vista un’Inghilterra che ha fatto nel secondo tempo la sua migliore partita, con una condotta di gara in crescendo. Ha dimostrato di essere capace a cambiare le cose e quanto attraverso questo si possa migliorare una prestazione. Il paradosso di questo Europeo, o se vuoi la cosa davvero da ricordare, è che Germania e Inghilterra a tratti hanno meritato anche più della Spagna stessa. Però, nel complesso delle sette partite, la nazionale di De la Fuente sicuramente è quella che mi ha impressionato di più sul piano delle idee di gioco e soprattutto dell’interpretazione data dai suoi giovani. Se questo lo si possa definire qualcosa di rivoluzionario francamente non lo so. Sicuramente è una squadra che sa esprimere una sua forte identità nazionale e in un calcio globalizzato non è assolutamente un fattore di poco conto».

Mi interessa proprio questo aspetto: come sia possibile che la Spagna si rinnovi, non sia più la stessa, viva anche un cambio generazionale e, contemporaneamente, produca un calcio organico, assolutamente riconoscibile, il più definito di tutti. E questo a prescindere dal risultato che poi ottiene…

«Non è facile dare un’identità a una nazionale, però il fatto che ci sia stato un allenatore federale nelle due squadre che hanno raggiunto la finale secondo me è indicativo. De la Fuente e Southgate sono due Commissari Tecnici che hanno fatto un percorso nei settori giovanili delle loro federazioni. Conoscendo bene tanti di quei giocatori, se li sono poi portati anche nella nazionale maggiore. Capitava una volta anche da noi, con Bearzot e Vicini. É una strada che si è ritrovata, non direi che è una via obbligata, però ha funzionato, è un ritorno se vogliamo all’antico che per la Spagna è più facile da percorrere perché fa parte del loro modo di essere. La cosa più bella del loro Europeo non sono state le singole partite, ma la naturalezza del loro stare in campo. Si sono visti giocatori che hanno un sentimento calcistico comune. Sono un corpo unico nel modo di interpretare il gioco e nel leggere gli spazi, a partire dal portiere per finire con il centravanti. É chiaro che poi è a centrocampo che si nota maggiormente, è lì che si rappresenta in maniera perfetta il loro modo di giocare a calcio, fatto di connettività e di passaggi frequenti. Sanno agire benissimo negli spazi stretti sia in fase di possesso che in fase di non possesso. In una formula: hanno il piacere nell’avere il pallone tra i piedi. Sono tutte cose che Rodri, Pedri o Dani Olmo hanno dentro la loro storia sportiva. Perciò non c’è da stupirsi se a 16 anni si riesce a diventare protagonisti in un Europeo. Perché come mi disse una volta Guardiola, è da quando hanno 5 anni che si pratica questo tipo di calcio…».

Cinque anni? É da quell’età che nasce il fenomeno Yamal e tutto il resto?

«A Barcellona fanno lo scouting partendo dal testare l’intelligenza di gioco dei bambini. Quando arrivano a 18 anni hanno già costruito tutto il resto, sono diventati giocatori veri ancora prima di approdare tra i grandi. L’idea di calcio è la stessa ad ogni livello di età, per questo poi Yamal può giocare in prima squadra senza problemi, ne possiede la cultura di gioco a livelli profondi. Sai cosa mi ha colpito di più di lui all’Europeo? Non è l’aspetto tecnico, non l’aver inventato il gol più bello della manifestazione con quel tiro all’incrocio dei pali contro la Francia. No, è il fatto che abbia delle letture di gioco che fanno trapelare una saggezza e un’intelligenza tattica incredibili per l’età che ha. Nico Williams si è messo in evidenza per la velocità, il controllo di palla, il dribbling imprevedibile, insomma, per le caratteristiche individuali. Invece Yamal si crea angoli di passaggio alla Messi, vede traiettorie che altri non immaginano neanche perché quel calcio fatto di connessioni d’insieme lo respira da sempre».

Mi piace molto tutto questo ragionamento perché va un po’ in controtendenza rispetto all’opinione corrente. Le Nazionali sono state un po raccontate in questi anni come una sorta di pura selezione dei migliori. Tu mi stai dicendo che tornnoa a essere l’espressione addirittura di un patrimonio calcistico comune acquisito e sedimentato negli anni, qualcosa che si confronta con il calcio globalizzato che tende a uniformare interpreti e stili di gioco.

«Se pensi alla Germania che ha vinto un Mondiale in Brasile, l’ha vinto con una grande allenatore federale, Löw, che era il secondo di Klinsmann nel 2006 e che ha fatto tutto il percorso nei settori federali, portando in nazionale tutta una serie di ragazzi usciti dai centri di formazione. Anche Southgate, al di là del fatto che ha perso le finali, ha avuto un mandato simile, ha lavorato sugli stessi presupposti di continuità finendo per ottenere così i migliori risultati dell’Inghilterra da decenni a questa parte. Da noi i Ct non sedimentano, se ne vanno via sempre, sia che vincano, sia che vada male (a parte adesso)…».

Prandelli. Conte o Mancini, per dire quelli che hanno fatto bene, non sono allenatori federali, però sono stati giocatori che hanno respirato quel calcio…

«Sono tre allenatori che hanno portato le loro storie in nazionale, certo. Ma da Sacchi in poi la nostra idea portante è stata importare la cultura di un club nell’Italia. Lui trattava Baggio, Signori o Zola rinunciando completamente al rispetto delle caratteristiche individuali del giocatore e dando preferenza a come deve stare in campo la squadra. Mancini ha riportato in auge il talento, secondo le sue idee, ma non sono intrinseche al modo di essere dei nostri giocatori.
E l’ha dimostrato proprio il ciclo successivo, che in teoria avrebbe dovuto essere in continuità. Spalletti non è stato “assorbito”, alle prime difficoltà si è visto che la squadra era smarrita. Italia-Albania è stata la partita di tutto l’Europeo con la media di passaggi al minuto più alta perché giocavamo sempre di prima, era quello che volevamo fare, esattamente come succedeva con il suo Napoli. Ma già in quella gara nell’ultima mezz’ora siamo andati nel panico. Nei match successivi abbiamo perso il controllo del gioco e – non riuscendo a fare quello che si pensava di avere assimilato – abbiamo perso completamente la capacità di rispondere all’avversario, il modo di stare in campo. Si è vista una paura generale. Ma non, come tutti hanno detto, dovuta alla soggezione psicologica nei confronti di avversari che ritenevamo più forti. Era, invece, decisamente più profonda: non sapere chi siamo, cosa dobbiamo fare in campo, l’assenza di un pensiero comune. In ognuno dei giocatori c’era il terrore, speravano di non ricevere il pallone tra i piedi».

Ti propongo questa fotografia dall’Europeo per cercare di capire se è una sintesi del calcio di oggi. Mi sembra che emergano questi tratti; tutti cercano la costruzione dal basso, con risultati alterni; a centrocampo si vede poco “gioco”, pochi contrasti; le squadre sono mediamente ordinate, come se fossimo dentro una logica di calcio a 5 in un campo da 11; le aree sono desertificate, gli attaccanti non si vedono; latitano i centravanti veri, come dimostra anche la classifica cannonieri priva di grandi interpreti. Il rischio è che l’insieme risulti un po’ prevedibile, se non hai l’eccellenza della Spagna o il coraggio della Turchia che vuole andare oltre i propri limiti…

«Ti porto altrove, in Copa America. Il Brasile, l’Argentina, l’Uruguay di Bielsa, la Colombia: loro hanno espresso un calcio completamente diverso. Le squadre stanno in 50 metri, c’è meno pressing, si cercano ancora giocate individuali e, soprattutto, ci sono i dribbling. Questo è stato l’Europeo con forse il minor numero di dribbling degli ultimi trent’anni. Ti propongo questo accostamento: lì vedevi Messi, magari alla sua ultima competizione internazionale, esaltare le sue qualità tecniche. E la sua visione di gioco è riuscita ancora a fare la differenza. Da noi i numeri 10 non ci sono più. Nella finale, per più di un’ora Bellingham ha agito prevalentemente da terzino, in ripiegamento continuo su Carvajal. Quando nell’ultimo terzo di gara si è messo dentro il campo ha creato quattro palle gol. In Europa il tatticismo condiziona esageratamente l’espressione del talento. Nelle squadre più forti nessuno gioca nella sua posizione naturale, sono tutti adattati al contesto di gioco, pensa a Musiala o Wirtz. I più tecnici vengono messi sugli esterni perché da lì coprono meglio il campo in fase di non possesso. Il vero problema è che glielo fanno fare già a 15 anni. Vedi tutti questi ragazzi che non sanno più giocare spalle alla porta. Gli allenatori li impostano per facilitare il compito, ma quando poi aumentano le difficoltà, il giovane non sa come fare, non possiede i codici per rispondere adeguatamente a quella sollecitazione. Io sono un tattico, può anche piacermi questo tipo di complessità del calcio. Però di sicuro non attrae le nuove generazioni, è un calcio comunque troppo cerebrale, troppo pensato. Mio figlio ha 15 anni e non la guarda più una partita: è troppo lenta, accadono troppe poche cose. É un campanello d’allarme. Bisognerebbe ragionare su come migliorare la velocità del gioco per renderlo meno prevedibile. Va bene considerare il portiere uno degli undici in grado di costruire, se non addirittura colui che principalmente facilita il gioco. Ma adesso siamo finiti nel chiamarlo in causa come l’uomo che ti permette di evitare il pressing. Siamo precipitati così nella melina. E le statistiche ci dicono che talvolta è l’uomo che tocca più palloni. Non essendo certamente lui quello più talentuoso con i piedi, c’è qualcosa che non va… Non ci si può divertire con una squadra che si ha il possesso palla, ma per il 70% nella sua metà campo. Prima o poi si dovranno trovare delle soluzioni, magari regolamentari, per evitare che il possesso diventi l’arma per anestetizzare le partite».

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