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Buon compleanno a… Dario Marcolin
Oggi è il compleanno di Dario Marcolin: giocatore, allenatore e ora commentatore tecnico su Dazn. La sua storia
Oggi Dario Marcolin compie 52 anni. Ci sarà un giorno, prima o poi, che qualcuno sistematizzerà la storia del cosiddetto opinionismo televisivo (perdonate il neologismo, ma rende l’idea del fenomeno). E si inizierà a dire che ad un certo punto è emersa una generazione di persone che in video ci sanno stare per competenza più che per meriti pregressi. Dario Marcolin, attualmente voce di Dazn, rientra perfettamente tra questi. Intendiamoci: non è che da calciatore non abbia avuto un suo degnissimo percorso, anche se alquanto frammentato in diversi club. Centrocampista intelligente, abile in cabina di regia e dotato di eccellente visione di gioco, si è affermato con la Cremonese, serbatoio di giovani speranze, per poi giocare con Lazio, Genoa, Cagliari, Sampdoria, Piacenza e Napoli e avere una breve e non esaltante parentesi in Inghilterra con il Blackburn. Successivamente ha avuto anche un’avventura nel calcio a 5, con tanto di convocazione in Nazionale ed esordio in amichevole contro il Paraguay.
Una pluralità di esperienze che devono avergli dato una forte consapevolezza su quanti aspetti il calcio racchiuda e quanta attenzione ci debba essere quando decidi di andare ad analizzarlo. Lo si percepisce in molti suoi commenti. Oltre che per brillantezza e fluidità nell’eloquio, dati ormai certi nei commentatori di oggi (e non sempre rintracciabili in quelli del passato) è la considerazione precisa di tanti particolari che colpisce nei suoi commenti. Magari c’entra anche avere frequentato Coverciano, essersi cimentato con la teoria e con la pratica nel suo percorso da allenatore.
Quel che è certo è che emerge una precisa volontà, in lui come in tanti altri colleghi: non essere scontato e neanche eccessivamente didattico, con il rischio di diventare pedanti. Cercare di capire realmente quel che si vede. Come quando ha difeso Charles De Ketelaere, reo di troppa delusione per restare in campo (erano i tempi del Milan, naturalmente): «Demoralizzato, è andato subito negli spogliatoio, non è stata certamente una mancanza di rispetto non andare insieme alla squadra a salutare i tifosi. In questo momento lui non trova la sua posizione ideale. In questo momento Diaz sta facendo molto meglio di CDK, ma piano piano arriverà anche il belga». O come quando, a La Gazzetta dello Sport, ha offerto questo approfondito ritratto su uno dei giocatori della Roma in crescita: «Nicola Zalewski ha fatto una stagione in cui ha vinto, ha mostrato progressi, giocava da veterano. Josè Mourinho lo ha utilizzato come quinto di difesa, però poteva fare anche l’interno di centrocampo: lui ha personalità, tecnicamente ha “due piedi”. La sua capacità, la sua tecnica, la sua corsa e anche le sue sicurezze lo fanno diventare un giocatore giovane ma appunto, come detto, una veterano. Zalewski è intraprendente, vincere una coppa europea come gli è riuscito con la Roma in Conference League vuole dire tanto a quell’età. Ecco, se io dovessi mettere dei soldi, li punterei senz’altro su questo giocatore. Mi sembra più avanti degli altri» (e se l’ultima battuta vi ha fatto sobbalzare, significa che allora ha vinto Fabrizio Corona…).
Allenatore, dicevamo. Con un legame speciale con Sinisa Mihajlovic, del quale è stato il vice in diverse situazioni, con Catania come momento di massima soddisfazione quando si raggiunse un’insperata salvezza, una piazza che non l’ha dimenticato e poi l’ha voluto anni dopo.
L’ultima panchina l’ha vissuta ad Avellino. Si presentò anche qui come comunicatore con un certo piglio, volto a solleticare l’orgoglio di una città che ha conosciuto momenti di grande calcio: «Per essere affamati e fare risultato serve cattiveria, non sono frasi fatte: io faccio leva sull’orgoglio, posso andare a toccare la loro testa, il sapere cos’è l’Avellino. Dobbiamo riscoprire quello».
Non andò bene, conobbe l’esonero e da allora ha preferito un altro punto di vista. Senza alcuna spocchia, come tradiscono certi ex mister, magari anche involontariamente, quando sono chiamati a giudicare il lavoro altrui con il pensiero che se ci fossero loro le cose andrebbero decisamente meglio.