Dalla mano de Dios a quella di Cutrone: la VAR non c'entra, gli asini restano asini - Calcio News 24
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2018

Dalla mano de Dios a quella di Cutrone: la VAR non c’entra, gli asini restano asini

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simone inzaghi cutrone milan-lazio

L’evoluzione mancata della VAR: la tecnologia non cancella l’incapacità, semmai la sottolinea. Dal 1986 ad oggi arbitri e calciatori non hanno mai mutato la loro natura: restano umani e bugiardi

Per i pischelletti di oggigiorno il Grande Fratello è un programma tv condotto da Ilary Blasi capace di regalare a noi altri personaggi di altissimo spessore intellettuale come Floriana la coatta, Fedro lo scoreggione e soprattutto il Principe George Leonard: «Meglio un giorno da leoni, che mille da cento» (ricordate?) resta ancora oggi una perla incastonata nel firmamento televisivo italiano, un po’ come le caccole del naso sotto i banchi di scuola. Non è così però. Non del tutto almeno. Il Grande Fratello, che non è il fratello maggiore di nessuno, è in realtà meno semplicemente un personaggio distopico immaginato da George Orwell (Orwell, non Leonard eh) nel 1984. Un dittatore (non s’è mai capito se persona in carne ed ossa o, nella finzione letteraria, un emblema creato ad uso e consumo dei poteri forti) capace di controllare tutto e tutti, di spiare ogni singola mossa delle persone con l’unico scopo di assoggettarle al suo volere. Nulla a che fare insomma con Marco Predolin al GF VIP che cerca di non cacarsi sotto mentre la telecamera in bagno scruta soddisfatta le sue flatulenze.

L’applicazione dei principi, in teoria ribaltati, del Grande Fratello orwelliano in ambito prettamente calcistico sono traducibili con la sigla VAR (Video Assistent Referee, ovvero assistenza video all’arbitro): telecamere in campo che spiano ogni singola azione di gioco imprimendo su uno schermo immagini che poi a loro volta spingeranno altri due arbitri a suggerire a quello ufficiale (cioè sul rettangolo di gioco) come muoversi in caso di decisioni controverse. Qui risiede forse il primo equivoco: per VAR non si intendono in verità i frame video inviati al pullmino di fianco allo stadio da cui in remoto operano i due arbitri confinati, ma si intendono proprio gli arbitri stessi. Sono questi ultimi nel concreto ad assistere l’ufficiale di gara, non di certo le immagini, che costituiscono invece semplicemente il mezzo, ovvero lo strumento, con il quale pervenire ad una migliore interpretazione. Da qui la premessa necessaria per giungere ad una semplice conclusione: la VAR non è tecnologia oggettiva per nulla, è anzi tremendamente umana e, come tutto ciò che è umano, soggetta a punti di vista, opinioni, valutazioni e tutto quello che vi pare.

Da Maradona a Cutrone: l’arbitro asino, resta arbitro asino

Di base restano le debolezze a monte di cui, da millenni, l’uomo cerca invano di liberarsi: arroganza, frettolosità di giudizio e pure una insana dose di ignoranza. Per capire ancora meglio: un asino con un fischietto, tramite il supporto di una tv, non è affatto meno asino, ma è molto più semplicemente un asino con una tv davanti. Non c’è affatto evoluzione percettibile alcuna rispetto al passato, disonesto chi non lo ammette: Ali Bin Nasser, l’arbitro tunisino (asino) che nel 1986 non si accorse del tocco di mano di Diego Armando Maradona e convalidò uno dei gol che consentì all’Argentina di battere l’Inghilterra ai Mondiali dando vita all’episodio probabilmente più celebre dell’intera storia calcistica, passato ai posteri con il nome de “La mano de Dios” (come Maradona stesso lo indicò all’epoca), non aveva alcun elemento di sostanziale primitività rispetto a Massimiliano Irrati di Firenze, che ieri ha convalidato il gol di Patrick Cutrone per il Milan, ancora di mano, contro la Lazio. Era semplicemente nato prima. La differenza che intercorre tra l’uomo moderno e quello preistorico non sta nell’avere a disposizione il fuoco, ma nel saperlo usare: può sembrare una distinzione apparentemente formale, ma solo in apparenza appunto.

Così la VAR non ha regalato al calcio italiano proprio nessuna innovazione, se non quella (collaterale) di aver messo del tutto in risalto, senza scusante alcuna, l’incapacità intellettuale e regolamentare di una parte (solo una parte però, diciamolo con franchezza) della classe arbitrale media. Se prima sbagliavi, poteva darsi (magari, forse, probabilmente) che il motivo fosse quello di non essere sufficientemente aiutati dalla tecnologia. Se sbagli oggi invece, è perché sei asino e basta. O più semplicemente perché non puoi o non vuoi appoggiarti alla tecnologia, come nei casi di Paolo Tagliavento a Crotone e Paolo Mazzoleni a Napoli (leggi anche: LA MOVIOLA DI NAPOLI-BOLOGNA), altri due campioni del darwinismo mancato in salsa arbitrale. Ed allora non sei asino: sei una capra, senza girarci troppo intorno.

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Il paradosso dell’evoluzione è che non c’è evoluzione

Nel paradosso di una conquista tecnologica che in verità non porta evoluzione tecnologica alcuna, ma che anzi mette a nudo, tristemente, la lacunosità umana di chi è chiamato a fare un lavoro in cui, purtroppo, di umano è richiesto ben poco (e va sottolineato con una giusta dose di commiserazione e misericordia), restano cristallizzate però due circostanze per nulla secondarie. La prima è quella ascrivibile a una manciata di club che rischiano il declassamento rispetto alle proprie legittime ambizioni iniziali (la Lazio con la Champions League resta il caso più eclatante, ma pure dando un’occhiata alla zona Europa League ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli) per insensibilità o, più volgarmente, per semplice vanagloria di alcuni. La seconda invece è quella relativa a un triplo salto generazionale che evidenzia a sua volta un’altra evoluzione mancata: quella di chi a pallone ci gioca.

Dalla mano di Maradona a quella di Cutrone, passando per il vedo-non vedo di Gigi Buffon in un leggendario Milan-Juve del 2012, rimane una sola verità indelebile: i calciatori sono dei gran bugiardi, mentitori di professione o, se preferite, professionisti della menzogna capaci di negare perfino l’evidenza delle immagini televisive. Dal 1986 ad oggi nulla è mutato di una virgola: il calciatore ha come prima reazione istintiva quella di mentire nella quasi totalità dei casi (del resto l’ammissione completa di Maradona fu solo a posteriori, dopo quasi un ventennio), anche perché in fin dei conti è pagato per farlo. In un Paese in cui non ci si aspetta onestà intellettuale nemmeno da chi governa, figurarsi però se è lecito attenderla da chi spesso a malapena ha concluso le scuole dell’obbligo. Così l’attaccante rossonero che alle accuse di slealtà dell’allenatore avversario Simone Inzaghi replica: «No, l’ho presa di spalla» ha in fondo la stessa credibilità di Elton John che confessa di essere un collezionista di passere. Nessun giudizio morale, sia chiaro, perché il discorso vale tanto per i calciatori, quanto per gli arbitri: è semplicemente la natura umana che non può essere cambiata da una VAR. Stronzi allora quelli che davvero ci credevano negando a sé stessi l’unica verità che conta: un asino resta un asino anche se carico d’oro.

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